Come i big data vengono utilizzati nel marketing digitale

Da un cumulo di numeri si passa a una serie di insight di valore, utili per massimizzare l’efficienza della comunicazione online e le vendite on e offline

Pubblicato il 12 Mar 2020

Cohort (coorte): che cos’è e come si usa nel marketing

Possiamo dire che il concetto di big data, una mole infinita di dati conservati nei server, nasca con il World Wide Web, il 6 agosto 1991. Accessi, registrazioni, click, visualizzazioni e qualsiasi azione si compia da computer o dispositivo mobile, viene registrata.

I big data possono essere utilizzati in maniera trasversale in tutti i campi e settori, ma è nel digital marketing che assumono un ruolo fondamentale e imprescindibile.

Come si fa il marketing digitale

Il marketing digitale (online), in opposizione e in integrazione a quello tradizionale (offline), comprende tutte quelle azioni volte a intercettare, conquistare e fidelizzare il consumatore attraverso strategie di marketing e comunicazione sui canali online: da Google ai social network, passando per Amazon e siti internet.

Secondo i dati forniti dal Report Digital di We Are Social e Hootsuite, pubblicato il 13 febbraio 2020, in Italia si contano 49,5 milioni di internet users (82% della popolazione) e 35 milioni di utenti attivi sui social (58% della popolazione), numeri che rendono inequivocabile il motivo per cui è vitale per le aziende essere presenti online.

Ma qual è il vantaggio principale offerto dal marketing digitale e dalle campagne pubblicitarie realizzate online, oltre al vastissimo pubblico che è possibile raggiungere?

Senza dubbio, il tracciamento dei big data, fondamentale per capire cosa è andato bene, cosa è andato male, quali debbano essere i next step, ma soprattutto dove è finito ogni singolo centesimo che è stato investito.

Come si utilizzano i big data nel marketing digitale: reach e impression

Piattaforme come Google, Facebook, Instagram e Amazon hanno nell’investimento pubblicitario da parte degli utenti la loro prima fonte di guadagno: con meccanismi d’asta guidati dagli algoritmi, preparano il campo di battaglia per le aziende che a suon di sponsorizzazioni vogliono e devono dominare il mercato annientando i competitor.

La bontà di un annuncio online, che sia un banner posizionato su un sito, un post su un social network o un prodotto su Amazon, viene valutato sulla base di determinati KPIs che possono essere suddivisi in due macro-classi: KPIs di copertura e KPIs d’interazione.

I principali KPIs di copertura sono reach e impression, che rispondono rispettivamente alle domande: quanti utenti hanno visto il nostro annuncio? E quante volte lo stesso annuncio è stato visto? Questi indicatori rispondono solitamente a un obiettivo di brand awareness, per il quale l’investitore vuole che il suo contenuto sia visto dal più grande numero possibile di persone. Ci si posiziona, in questo caso, nella parte alta del funnel di vendita.

I KPIs d’interazione, invece, entrano in gioco nella parta bassa dello stesso funnel, quella di engagement e purchase. I più importanti sono:

  • click: quante persone, tra quelle che hanno visto l’annuncio, hanno “cliccato”?
  • conversioni: quante persone, tra quelle che hanno cliccato, hanno comprato il prodotto o hanno effettuato una determinata azione, come ad esempio una chiamata o la compilazione di un form?

In entrambi i casi, che si parli di copertura o di interazioni, diviene fondamentale la profilazione dell’utente. Tutte le piattaforme online offrono metriche sempre più precise in tal senso, fornendoci insight sulle fasce d’età maggiormente coinvolte, in quali aree geografiche, in che giorni e a quali orari.

Cosa dice l’analisi dei big data

L’analisi dei big data assume rilevanza durante e dopo le campagne, aiutando gli inserzionisti ad affinare il tiro degli annunci e a giudicarne il rendimento.

Un ulteriore elemento distintivo delle campagne online, infatti, risiede nella possibilità di poter effettuare ottimizzazioni in tempo reale. Nella fase di creazione della campagna, cioè, viene impostato un determinato target socio-demografico, geografico e di interessi che può essere successivamente modificato sulla base delle performance in corso.

Quindi, è chiaro che se l’azienda ha in mente di mostrare il suo annuncio in tutta Italia, e monitorando le campagne l’analista si accorge che in alcune regioni gli utenti rispondono meglio che in altre, sarà interesse di tutti focalizzare l’attenzione e gli sforzi finanziari su quella fetta di pubblico.

Al termine della sponsorizzazione, i dati vengono poi raccolti nelle cosiddette dashboard, ossia griglie che mostrano tutti i numeri relativi ai KPIs che si vogliono valutare: quante impression abbiamo prodotto? Quanti utenti abbiamo raggiunto? Quanti click ci sono stati? Quante conversioni sono state effettuate? Quante visualizzazioni conta il nostro video? Qual è la durata media di riproduzione? Ma soprattutto, qual è il ROI dell’investimento?

Sulla base degli obiettivi preposti, le aziende possono così capire se la campagna sia stata o meno profittevole.

Ma il ruolo dei big data non si limita a questo, va ben oltre. Il loro compito, forse il più importante, è quello di rispondere alla domanda: so what? Ovvero, quindi? Una volta raccolti i numeri, cioè, bisogna analizzarli e capire cosa ci stanno comunicando.

È in questa fase che i big data diventano smart data, ossia vengono trasformati da un cumulo di numeri a una serie di insight di valore utili per massimizzare l’efficienza della comunicazione online e le vendite on e offline.

Tuttavia, è importante sottolineare come le considerazioni puramente quantitative derivanti dall’analisi dei dati debbano essere valutate all’interno di un quadro più ampio che preveda anche un’analisi qualitativa, altrettanto importante.

Laddove le analisi quantitative e qualitative vengono svolte in maniera perfettamente armonica e coerente tra loro, l’azienda trova tutte le risposte necessarie per conquistare il consumatore e battere la concorrenza.

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