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GenAI: dai dati alla cultura aziendale, come creare valore oltre l’hype



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Il valore dell’intelligenza artificiale generativa si misura nella capacità di generare risultati reali, non nell’hype tecnologico. Solo dati ordinati, processi chiari e governance consapevole trasformano la GenAI in un vero motore di efficienza aziendale. Le considerazioni di Salesforce e Deloitte durante i Digital360 Awards

Pubblicato il 11 nov 2025



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Negli ultimi anni il dibattito sull’intelligenza artificiale ha oscillato tra promesse di rivoluzione e timori di complessità incontrollata. Ma quando il clamore si attenua, resta una domanda concreta: come si misura davvero il valore dell’intelligenza artificiale generativa nelle aziende? È la riflessione al centro del confronto tra Matteo Bordoni, Senior Director Solution Engineer di Salesforce, e Ivan Terroni, Equity Partner di Deloitte, durante il Digital Outlook “L’essenziale dell’AI, meno hype e più valore”, organizzato nell’ambito dei Digital360 Awards.

Entrambi i relatori concordano su un punto: la sfida dell’AI non è più tecnologica, ma strutturale. Serve ripensare processi, qualità dei dati e governance, perché la promessa della generative AI si traduca in risultati economici misurabili.

Dall’hype alla concretezza: cosa significa “essenziale” nell’AI

Ivan Terroni ha descritto l’attuale fase come una transizione dall’entusiasmo alla consapevolezza. «Negli ultimi anni», ha ricordato, «società di consulenza e software vendor hanno generato un hype spaventoso attorno alla GenAI. Oggi sembra la soluzione a ogni inefficienza aziendale, ma non sempre lo è». Il passaggio cruciale, secondo Terroni, consiste nel trasformare le buone intenzioni in applicazioni concrete, capaci di portare efficienza reale ai processi.

Per farlo, occorre partire da un ripensamento profondo dell’architettura aziendale. Dopo l’era dei sistemi monolitici – gli ERP fortemente customizzati – le imprese stanno adottando modelli “composable”, in cui le applicazioni comunicano fra loro e i processi si ridisegnano end-to-end. È in questo contesto che l’AI trova la sua collocazione naturale: come tecnologia capace di integrare dati strutturati e non strutturati, generando correlazioni che l’uomo, da solo, non può intercettare.

Il dato come fondamento del valore

Per Deloitte, l’essenzialità dell’AI parte da una consapevolezza apparentemente semplice ma ancora spesso ignorata: senza dati ordinati, non esiste valore. Terroni ha raccontato la propria esperienza nello sviluppo di un agente di GenAI interno: «Mi sono reso conto che sviluppare un agente è facile, applicarlo è difficile. Funziona bene su piccoli volumi di dati, ma appena li allarghi emergono distorsioni. Il problema non è solo la pulizia del dato, ma la sua correlazione con i processi aziendali».

Da qui nasce la regola di base: prima di implementare un agente AI, occorre ridisegnare i processi. Solo quando il flusso operativo è coerente e il dato affidabile, l’AI può generare efficienza misurabile. Senza questa correlazione, anche il modello più avanzato produce risultati incoerenti o inutilizzabili.

Matteo Bordoni, dal lato Salesforce, ha confermato la centralità della data governance per la GenAI. «Non è quasi mai un tema di disponibilità del dato», ha spiegato. «I dati ci sono, ma sono sparpagliati tra data lake, warehouse e database. Il punto è portarli nel contesto del processo di business, in tempo reale».

È un lavoro che Salesforce ha affrontato sperimentando prima su sé stessa: «Siamo stati il paziente zero dei nostri progetti di customer service agentici. Per farli funzionare abbiamo dovuto creare un layer di gestione dei dati dedicato. Solo dopo questo passo l’agente ha iniziato a generare valore».

Legacy data e redesign informativo: la barriera invisibile

L’altra grande sfida è quella dei legacy data. Come ha spiegato Bordoni, gran parte delle informazioni aziendali nasce in un’epoca pre-GenAI: manuali PDF, documenti lunghi e non strutturati, pensati per la lettura umana. «Sono difficili da vettorizzare e da usare in modo efficace», ha osservato. Da qui la necessità di un progetto nel progetto: curare e ridisegnare il dato per renderlo interpretabile dagli algoritmi.

In molti casi, questa fase di pulizia e riscrittura si rivela il vero motore di innovazione. Non solo abilita la GenAI, ma obbliga le imprese a rivedere le proprie conoscenze, eliminare ridondanze e aggiornare archivi obsoleti. È un processo che produce valore anche prima dell’intelligenza artificiale in sé, restituendo alle aziende un patrimonio informativo più leggibile e coerente.

ROI e misurazione: quando l’AI impatta davvero sul business

Ma come si misura il valore dell’intelligenza artificiale generativa? La domanda apre una delle sezioni più pragmatiche dell’incontro.

Terroni porta esempi concreti: un’azienda che, grazie a un agente GenAI applicato all’analisi dei contratti e degli ordini d’acquisto, ha scoperto inefficienze non visibili a occhio umano. «Credevano di utilizzare sempre i migliori fornitori, ma i dati hanno mostrato che molti ordini erano frammentati e subottimali. L’AI ha rivelato margini di ottimizzazione che hanno avuto impatto diretto sul conto economico».

Un altro caso riguarda la revenue collection: l’applicazione di un sistema di intelligenza artificiale ha permesso di individuare 80 milioni di crediti non recuperati, a fronte di un investimento di poche centinaia di migliaia di euro. «L’ROI è stato immediato», ha sottolineato Terroni, ricordando come queste esperienze dimostrino che la GenAI può produrre valore tangibile, ma solo se costruita su dati integri e cross-sistema.

L’altra faccia del valore: il costo totale dell’AI

A bilanciare l’entusiasmo, Bordoni richiama l’attenzione sul Total Cost of Ownership (TCO) dei progetti di intelligenza artificiale. «Il costo di un agente è come un iceberg», spiega. «La punta è ciò che vediamo – l’interfaccia che risponde e lavora – ma sotto c’è una massa di complessità fatta di compliance, governance, osservabilità e fine-tuning continuo».

Ogni agente, infatti, richiede monitoraggio costante. «Il progetto non finisce mai: bisogna osservare, migliorare, correggere. È un software probabilistico, e la sua efficacia dipende da un controllo continuo».

Il risultato, però, può essere significativo. Bordoni cita il caso del customer service interno di Salesforce, dove gli agenti hanno gestito in modo autonomo 1,6 milioni di richieste, con un resolution rate del 60% e un tasso di escalation verso operatori umani del 30%. «Abbiamo mantenuto gli stessi KPI di soddisfazione del cliente, ma con un’efficienza maggiore: l’agente diventa un’estensione del team».

Da luglio, la stessa logica è stata applicata alle vendite: 2,5 milioni di contratti aggiuntivi generati grazie a un sistema di agenti che ricontattano i lead più freddi. È un esempio di come l’AI possa ampliare la capacità produttiva, non sostituendo le persone ma potenziando la scala operativa.

Dal POC alla scala: evitare l’automazione del caos

Nonostante i risultati, la maggior parte dei progetti di AI aziendale resta ferma allo stadio di proof of concept. Terroni identifica le cause: «Spesso il POC nasce per risolvere un problema locale, non aziendale. Funziona in un reparto, ma quando si tenta di scalarlo perde efficacia». Le ragioni sono note: dati non uniformi, processi incoerenti, modelli non disegnati per la molteplicità dei contesti produttivi.

Bordoni parla di un rischio diffuso: «L’agentificazione del caos. Prendiamo un processo inefficiente e pensiamo di renderlo migliore applicando un agente. Ma probabilmente peggiorerà».

Per entrambi, il valore dell’intelligenza artificiale generativa non risiede nell’automazione in sé, ma nella capacità di migliorare ciò che già funziona e di riorganizzare ciò che non serve più. «L’agente non deve lavorare su un singolo database o data warehouse», aggiunge Terroni. «Deve essere cross-piattaforma e cross-processo, capace di uniformare i dati partendo da processi ordinati».

L’AI come leva di trasformazione culturale

Quando l’intelligenza artificiale funziona, lo fa perché incontra una cultura organizzativa pronta al cambiamento. Bordoni osserva che le aziende più efficaci «non si chiedono più come agentificare i processi, ma come trasformarli». Il valore nasce quando l’AI diventa strumento di innovazione condivisa, sostenuta da team agili e partner esperti, capaci di costruire progetti sostenibili nel tempo.

In questo senso, “l’essenziale dell’AI” non è la tecnologia, ma la capacità di ridisegnare ciò che l’AI tocca: dati, persone, processi. È qui che l’hype dell’AI si spegne e il valore si accende.

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