Questo articolo è il quinto contributo di una piccola serie, realizzata da docenti e professionisti, sul tema della gestione del cambiamento tecnologico in ambito industriale, combinando conoscenze teoriche ed esperienze vissute sul campo.
Nei precedenti articoli sono stati discussi:
- l’impatto sulle persone del cambiamento a base tecnologica
- come gestire il cambiamento e la resistenza al cambiamento nelle organizzazioni aziendali
- il ruolo della cultura aziendale nell’indirizzare e facilitare il cambiamento
- Il ruolo della leadership e come svilupparla per ottenere successo e autorevolezza nei processi di cambiamento
In questo articolo esploriamo un tema affascinante: il ruolo delle neuroscienze e della psicologia nei processi di cambiamento, analizzando come il cervello umano reagisce alle sfide, alle opportunità e alle minacce e come i leader possono sfruttare queste conoscenze per guidare in modo più efficace le proprie squadre.
A partire dal prossimo articolo cominceremo ad analizzare uno dei più affermati modelli interpretativi dei processi di cambiamento, il cosiddetto modello ADKAR (Awareness, Desire, Knowledge, Ability & Reinforcement), esaminando la prima fase, quella dedicata all’awareness.
Indice degli argomenti
Sopravvivenza vs eccellenza: la dualità neurofisiologica
In un mondo in continua evoluzione, la capacità di affrontare il cambiamento è diventata una delle competenze più importanti per individui e organizzazioni. Se da un lato la tecnologia e le strategie aziendali giocano un ruolo fondamentale, dall’altro è il nostro cervello a determinare nella maniera più profonda e pervasiva la nostra risposta ai cambiamenti.
Le neuroscienze e la psicologia forniscono chiavi di lettura potenti per comprendere come la mente reagisca al cambiamento, quali siano le resistenze più comuni e come superarle. Nel prosieguo dell’articolo, esploreremo come le neuroscienze e la psicologia influenzano il nostro modo di affrontare le trasformazioni e quindi come possiamo progettare il cambiamento per favorirne l’adozione e la sostenibilità alla luce di queste considerazioni.
Viviamo in un’epoca in cui il cambiamento non è più un’opzione strategica, ma una condizione permanente: e tuttavia, la vasta maggioranza delle persone tende a sottovalutare il potere del nostro innato istinto di sopravvivenza e di come esso possa inavvertitamente soffocare la nostra abilità di cogliere rapidamente opportunità, di innovare, di adattarci, di trasformarci al meglio. È proprio questo il motivo per cui, nonostante la disponibilità di metodi, tecnologie e risorse, molte imprese falliscono nei propri processi di trasformazione. Perché? Una risposta arriva da un modello tanto potente quanto sottovalutato: la dicotomia neurocomportamentale tra “Sistema di Sopravvivenza” e “Sistema di Eccellenza“.
Il Sistema di Sopravvivenza…
Questa distinzione affonda le sue radici nella neurofisiologia evolutiva. Il nostro cervello si è evoluto per proteggerci da ciò che percepiamo come pericolo, attivando un insieme di risposte automatiche e immediate. Questo assetto, denominato “Canale di Sopravvivenza“, è governato principalmente dal sistema nervoso simpatico e si manifesta quando un individuo – o un’organizzazione – interpreta un cambiamento come una minaccia.
La risposta è rapida: l’amigdala, sentinella del cervello limbico, invia un segnale di allarme all’ipotalamo, che a sua volta attiva il meccanismo (il nostro sistema nervoso simpatico) che è responsabile delle risposte a situazioni potenzialmente pericolose. Il corpo si prepara al combattimento o alla fuga, il pensiero si restringe, l’attenzione si concentra in modo selettivo sul pericolo percepito. L’adrenalina scorre nei nostri corpi, aumentando i battiti e la pressione sanguigna, accelerando la respirazione per innalzare il livello di ossigeno nel flusso sanguigno e rilasciando zuccheri e grassi nel sangue per prepararci a fronteggiare il problema o a fuggire con la massima energia.
Questo stato può protrarsi nel tempo, generando quella che la letteratura chiama “Sopravvivenza Allarmata“: una condizione di attivazione cronica in cui il sistema è incapace di recuperare uno stato di equilibrio. Il nostro corpo rilascia sostanze chimiche addizionali (cortisolo e altri ormoni). Aumentano ansia, stress, calano la produttività e il morale, si azzerano le capacità esplorative. La cultura aziendale si trasforma in un sistema difensivo, dominato dalla percezione dei limiti e dalla gestione del danno. In queste condizioni diventiamo così stanchi e distratti che siamo incapaci di affrontare bene anche i problemi per cui il Canale della Sopravvivenza è stato concepito. E come possiamo incitare gli altri a cogliere le opportunità quando noi stessi funzioniamo a malapena?
Nel contesto aziendale moderno, questa stessa reazione può diventare un ostacolo sistemico all’innovazione e una cultura data driven. Quando un’organizzazione entra in modalità di sopravvivenza allarmata – ad esempio in seguito a una ristrutturazione mal comunicata o a un calo improvviso del mercato – il comportamento collettivo tende a irrigidirsi. Le persone si chiudono, evitano rischi, si focalizzano solo sul breve termine. I leader, se percepiti come portatori del cambiamento, vengono visti come minacce e ogni opportunità di evoluzione viene valutata esclusivamente in base alla sua capacità di mitigare un rischio, non di creare valore.
…e il Sistema di Eccellenza
In contrapposizione, esiste un secondo sistema che si attiva quando il cervello percepisce l’ambiente come sicuro: è il “Sistema di Eccellenza“. Qui non parliamo più di sopravvivenza, ma di espansione. Il sistema nervoso parasimpatico entra in gioco, promuovendo uno stato di apertura fisiologica e mentale. A livello neurologico, si attivano regioni come la corteccia prefrontale dorsolaterale – deputata alla pianificazione e al pensiero strategico – e aumentano i livelli di neurotrasmettitori associati alla connessione sociale e alla motivazione, come dopamina, ossitocina e serotonina.
In questo stato, le persone non reagiscono a minacce, ma si muovono verso opportunità. L’attenzione si amplia, la mente elabora soluzioni complesse, le emozioni diventano carburante per la creatività. I team collaborano con maggiore fluidità, l’errore viene integrato come parte del processo e l’apprendimento accelera. È la condizione ideale per affrontare l’incertezza e per guidare trasformazioni profonde.
Tuttavia, il passaggio da uno stato all’altro non è spontaneo. Le organizzazioni spesso si illudono di poter “gestire il cambiamento” con strumenti razionali, ma ignorano che alla base di ogni comportamento c’è una condizione fisiologica, un tono neurobiologico di fondo che può potenziare o compromettere l’intera operazione di trasformazione.
In molte aziende, il cambiamento viene introdotto in modo frettoloso, senza costruire un contesto sicuro, senza una narrazione coerente e coinvolgente. Il risultato è che, pur partendo da intenzioni eccellenti, si attiva il sistema sbagliato: la paura prende il sopravvento e con essa tutto il suo corredo di resistenza passiva, cinismo, sfiducia. Non è la razionalità a prevalere, ma la biologia. Ciò che emerge dal confronto tra questi due sistemi non è solo un’opzione metodologica, ma una vera e propria scelta strategica di design organizzativo. Le imprese che riescono a promuovere un Canale dell’Eccellenza sano e funzionale sono quelle che investono sulla sicurezza psicologica, sulla leadership autentica, sulla trasparenza comunicativa e sulla partecipazione diffusa. Non si limitano a “gestire” il cambiamento, ma lo abilitano, generando le condizioni perché le persone vi aderiscano con convinzione.
In definitiva, il modello Sopravvivenza/Eccellenza ci offre una chiave di lettura evoluta: il successo di una trasformazione organizzativa dipende meno dalla bontà della strategia e più dallo stato neurofisiologico in cui quella strategia viene vissuta.
In altre parole, quindi, la domanda non è più “come cambiare le persone”, ma “in quale stato devono trovarsi per poter cambiare davvero”.
Il modello del Golden Circle di Simon Sinek
Fin dai tempi più antichi, l’essere umano ha agito spinto da un imperativo fondamentale: la sopravvivenza. Questa spinta ha orientato non solo i comportamenti individuali e collettivi, ma ha anche modellato profondamente il funzionamento del cervello e dei processi decisionali. In un ambiente in continuo mutamento, sviluppare strategie efficaci per adattarsi e prosperare è diventato cruciale.
Nel mondo delle neuroscienze e della psicologia, il cambiamento non è solo una questione di decisioni razionali e analisi strategiche, ma coinvolge anche profonde dinamiche emotive e fisiologiche. La mente umana è progettata per costruire modelli predittivi del mondo, ma quando ci troviamo ad affrontare il cambiamento, queste previsioni vengono disturbate, generando ansia, resistenza e paura.
Uno dei modelli di riferimento più efficaci per comprendere come guidare il cambiamento è il Modello del cerchio d’oro (Golden Circle) di Simon Sinek, che offre una struttura per motivare e ispirare le persone in modo che il cambiamento non venga visto come una minaccia, ma come un’opportunità.
Per comprendere a fondo le dinamiche del cambiamento, della leadership efficace e della resistenza psicologica all’innovazione, è utile partire da come funziona il nostro cervello. Questo modello si compone di tre cerchi concentrici:
- al centro c’è il Perché, ovvero la motivazione profonda, lo scopo che guida le azioni;
- attorno troviamo il Come, cioè i valori, i principi, i processi distintivi attraverso i quali il cambiamento si manifesta e viene realizzato;
- infine, il Cosa, che rappresenta i prodotti, i servizi, le azioni concrete che occorre fare.

Ciò che rende potente questo modello non è solo la sua semplicità grafica, ma la sua base biologica. Il Perché corrisponde infatti al sistema limbico del cervello umano, la sede delle emozioni, dei comportamenti e delle decisioni istintive. Questo sistema non ha capacità di linguaggio, ma guida le scelte più profonde secondo criteri intuitivi ed emozionali. Ecco perché, come sottolinea Sinek, partire dal “perché” consente di connettersi direttamente con la parte più autentica e motivazionale dell’essere umano: non parliamo solo alla testa, ma soprattutto al cuore. Quando i leader o le organizzazioni comunicano partendo dal Perché, riescono a ispirare e coinvolgere in modo più profondo, creando un legame che va oltre la razionalità. Argomento di cui parleremo nel dettaglio nel prossimo articolo che riguarderà la prima fase di uno dei modelli più famosi del Change Management: il modello di Adkar.
Tuttavia, anche quando il messaggio è ben strutturato e il “perché” è chiaro, il cambiamento incontra spesso una resistenza fisiologica e psicologica dal momento che dal punto di vista biologico, le abitudini si formano attraverso la ripetizione. Allo stesso modo, difatti, fenomeni biologici come la “mielinizzazione1” ci mostrano quanto il cervello sia programmato per rafforzare le connessioni legate all’esperienza e all’abitudine, rendendo più efficiente ciò che è rilevante per la nostra sopravvivenza e successo.
Il processo di mielinizzazione e altri fenomeni psicologici
All’interno di questo processo, la psicologia e le neuroscienze giocano quindi un ruolo fondamentale ed è proprio attraverso la comprensione dei meccanismi cerebrali, che possiamo realmente comprendere come sedimentano le nuove abitudini e come possiamo facilitare la trasformazione.
Il cambiamento e la formazione di nuove abitudini sono processi che richiedono tempo e ripetizione e la neuroscienza ci offre una chiave di lettura interessante: la mielinizzazione. Ogni volta che compiamo un’azione, il nostro cervello forma percorsi neurali per rendere quell’azione più automatica e veloce. Questo processo è essenziale per consolidare le nuove abitudini. La mielina è una sostanza che riveste le fibre nervose, migliorando la velocità e l’efficienza della trasmissione degli impulsi elettrici tra i neuroni. Più ripetiamo un comportamento, più il nostro cervello ispessisce la mielina lungo i percorsi neurali associati a quella specifica azione.
Le persone non abbandonano facilmente le proprie abitudini consolidate perché, a livello cerebrale, queste sono diventate vere e proprie connessioni neurali funzionanti e dunque difficili da abbandonare. Quando si introduce una novità, un cambiamento, il cervello deve formare nuovi percorsi neurali. Questo richiede ripetizione, impegno e tempo, ma è solo attraverso la costanza e la ripetizione che una nuova abitudine si sedimenta nel cervello e diventa parte del comportamento automatico.
Oltre alla dimensione neurobiologica, il cambiamento implica anche una serie di processi psicologici complessi governati, tra le altre, dalla teoria della Loss Aversion (Kahneman e Tversky). Secondo questa teoria, le perdite hanno un impatto psicologico maggiore rispetto ai guadagni dello stesso ammontare. In altre parole, perdere 100 euro provoca una sofferenza maggiore rispetto alla gioia provata nel guadagnare 100 euro. Il rapporto stimato è circa 2:1: Gli psicologi Kahneman e Tversky hanno infatti dimostrato che una perdita viene percepita come due volte più “dolorosa” rispetto al piacere di un guadagno equivalente.
“È piu facile sopportare il dolore conosciuto che assumersi lo sforzo e il rischio della gioia sconosciuta”
Ciò che blocca l’adozione del cambiamento è il regret, o rimpianto, studiato in economia comportamentale. Di fronte a una nuova opzione, il cervello attualizza in anticipo il possibile rimpianto di aver abbandonato la via conosciuta. Questo rimpianto potenziale è particolarmente intenso quando si lascia un’opzione di default per qualcosa di nuovo. Inoltre, il rimpianto è più doloroso quando deriva da un’azione attiva piuttosto che da un’omissione, perché chi agisce si sente direttamente responsabile dell’esito.
Questo meccanismo psicologico spinge le persone a rimanere ferme, a non scegliere, alimentando la resistenza. A livello cerebrale, questa tensione si riflette nella dicotomia tra corteccia cerebrale e sistema limbico: la prima è la sede del pensiero logico e razionale, il secondo invece quella delle emozioni e quindi anche delle paure.
Spesso, anche se razionalmente comprendiamo che un cambiamento è utile o necessario, è il sistema limbico a bloccarci, per timore di fallire, di perdere il controllo o di subire un danno. Questo fenomeno è amplificato quando il cambiamento è percepito come un’azione attiva, piuttosto che una semplice omissione. Il rimpianto da azione tende a essere più forte, poiché chi compie una scelta sente una maggiore responsabilità nei confronti dei risultati.
Questo meccanismo psicologico ha un impatto significativo durante il processo di cambiamento, in quanto le persone tendono ad evitare le azioni che potrebbero portare a rimpianti, anche quando queste azioni potrebbero essere benefiche nel lungo periodo.
Nel contesto aziendale, il rimpianto può spingere le persone a resistere all’adozione di nuovi comportamenti o tecnologie, preferendo rimanere nella zona di comfort, anche se inefficace. La consapevolezza di questo fenomeno può aiutare i leader a progettare il cambiamento in modo che le persone non siano sopraffatte dalla paura del rimpianto, creando un ambiente in cui il cambiamento viene visto come una progressione positiva e non come un rischio.
Il cervello umano è un organo predittivo: costruisce continuamente modelli del mondo per anticipare ciò che accadrà. Quando il cambiamento interrompe questa capacità predittiva, emerge disagio. Le persone tendono a preferire soluzioni familiari, anche se meno efficienti, pur di mantenere una sensazione di controllo. Infatti, il cambiamento è più accettabile quando viene percepito come governabile.
Un ulteriore strumento utile per interpretare le reazioni al cambiamento è la curva di Kübler-Ross, che descrive le fasi emotive che molte persone attraversano durante il processo di adattamento, dalle difficoltà iniziali fino all’accettazione.
In questo contesto, la Curva di Kübler-Ross, originariamente sviluppata per descrivere le fasi del lutto, si rivela un utile strumento per interpretare le reazioni al cambiamento. Le persone attraversano diverse fasi emotive, che iniziano spesso con la negazione, seguita da rabbia e contrattazione, fino alla depressione e, infine, all’accettazione. Non tutti percorrono queste fasi allo stesso ritmo, e alcune persone possono non passarvi affatto, mentre altre potrebbero tornare a fasi precedenti. Riconoscere queste differenze è cruciale per accompagnare le persone in modo efficace durante il cambiamento.

In parallelo, la teoria della transizione di William Bridges offre un altro strumento chiave per comprendere come il cambiamento viene interiorizzato. Bridges distingue tra il cambiamento esterno e la transizione interna, che riguarda il processo psicologico che ogni individuo deve affrontare per adattarsi. Il cambiamento avviene a prescindere, ma se gli individui non riescono a rielaborarlo dentro di sé, non potrà mai tradursi in una trasformazione effettiva. Coinvolgerli, renderli protagonisti, permettere loro di co-progettare anziché ricevere passivamente decisioni dall’alto, diventa essenziale per il successo.
È quindi fondamentale costruire un ambiente psicologicamente sicuro, in cui le persone si sentano libere di esprimere dubbi, di sperimentare, persino di sbagliare, senza il timore di subire conseguenze negative. La sicurezza psicologica è il prerequisito affinché le persone possano affrontare le loro paure e aprirsi a nuovi comportamenti.
Conclusione
Il cambiamento, soprattutto quando riguarda l’adozione di nuove abitudini o processi, è un viaggio che attraversa sia la mente razionale che quella emotiva. Cambiare quindi non è solo una questione di strategia e di scelte razionali: al contrario è un intreccio complesso di biologia, psicologia e esperienza vissuta. Capirne la complessità è il primo passo per accompagnarlo in modo autentico, efficace e umano.
Check-list di domande autoriflessive
Per aiutare i lettori a comprendere per aiutare i lettori a collegare i concetti teorici (sopravvivenza, cerchio d’oro, mielinizzazione, abitudine, ecc.) alla propria esperienza personale, ecco una serie di domande:
Domande verso di sè | Domande verso il team |
Cosa mi motiva davvero quando affronto un cambiamento? È la paura di perdere qualcosa o il desiderio di migliorare? | Cosa motiva davvero i miei collaboratori ad affrontare un cambiamento? Si muovono più per paura di perdere qualcosa o per desiderio di migliorarsi? |
Quando ho dovuto cambiare qualcosa nella mia vita, quale “perché” mi ha spinto? Era un bisogno interiore oppure solo una pressione esterna? | Quando comunico un cambiamento al team, riesco a spiegare chiaramente non solo cosa fare, ma anche perché è importante farlo? Quali modalità comunicative si sono rivelate più efficaci? |
Tendo a mantenere le mie abitudini anche quando so che non mi fa bene? Se sì, cosa rende difficile modificarle? | Ci sono membri del team che faticano a cambiare abitudini, anche quando queste non sono più utili o funzionali? Cosa li trattiene e come posso supportarli meglio? |
In che modo il mio cervello “automatizza” certe scelte o comportamenti? Riesco a individuare dei comportamenti ripetitivi? | Riconosco comportamenti o decisioni nel tuo team che sembrano essere ripetuti automaticamente? Come possiamo aumentarne la consapevolezza per favorire scelte più intenzionali? |
Quali esperienze nella mia vita hanno lasciato un segno così forte da plasmare le mie reazioni attuali? Come si collegano queste esperienze ai concetti di apprendimento e adattamento? | Sai se tra le persone del tuo team vi è qualcuno che ha avuto esperienze nella vita che hanno lasciato un segno così forte da plasmare le sue reazioni attuali? In che modo queste esperienze influenzano il loro atteggiamento o le loro reazioni attuali? |
Qual è il mio livello di consapevolezza rispetto ai processi mentali che guidano le mie decisioni quotidiane? Li subisco o riesco a osservarli con distacco? | I miei collaboratori sono consapevoli di come i loro pensieri influenzano le decisioni quotidiane? Come posso aiutarli a sviluppare questa consapevolezza? |
In quali situazioni sento che sto “resistendo” al cambiamento anche se razionalmente so che sarebbe utile? Quali paure o meccanismi di difesa emergono? | Chi nel team tende a resistere maggiormente al cambiamento, anche quando potrebbe portare benefici? Quali paure o credenze possono essere alla base di questa resistenza? |
Quanto spazio lascio al tempo e alla ripetizione per “mielinizzare” un nuovo comportamento? O mi aspetto cambiamenti immediati? | Quanto spazio lascio al tempo e alla ripetizione delle persone che compongono il mio team per “mielinizzare” un nuovo comportamento? O mi aspetto cambiamenti immediati? |
Come posso allenare la mia mente a rendere sostenibile e duraturo un nuovo modo di pensare o agire? Ho degli strumenti concreti per farlo? | Sto fornendo strumenti e opportunità adeguate al mio team per affrontare il cambiamento in modo sostenibile e proattivo? Cosa potrei migliorare nel mio approccio come manager? |
Co-autori
- Giovanni Sgalambro – Co-founder e CEO Accompany, Adjunct professor of “Organizing & Leading Change” Unicatt, Co-founder e Past President Assochange
- Stefan Wilda – Coach SITC (Swiss Institute for Training and Coaching)
- Luca Argenton – Co-founder e CEO, Digital Attitude
- Federico Adrodegari – Ricercatore di service management e servitization, Università degli Studi di Brescia
- Filippo Muzi Falconi – CEO, Methodos
- Anna De Carolis – Assistant Professor, Politecnico di Milano
- Lino Codara – Professore Associato in Sociologia dei processi economici e del lavoro, Università degli Studi di Brescia
Mario Rapaccini – Professore di Innovazione e Imprenditorialità, Università degli Studi di Firenze, Co-Founder & Advisor SmartOperations