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Trasformazione digitale in Italia: l’industria è pronta ma manca la spinta delle persone



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L’analisi di Bonfiglioli Consulting fotografa una trasformazione digitale in Italia ancora rallentata da rigidità organizzative e carenze di competenze nelle persone e nei processi. Con un effetto di obsolescenza che frena i nuovi investimenti

Pubblicato il 12 nov 2025



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La trasformazione digitale in Italia procede con lentezza rispetto alla capacità manifatturiera e alla solidità operativa del sistema industriale. È quanto emerge dalla ricerca biennale condotta da Bonfiglioli Consulting e presentata da Marco Brandalesi, Principal della società, nel corso dell’AI Operations Forum 2025 agli IBM Studios di Milano.

Dall’intervento di Brandalesi e dai dati dell’Osservatorio emerge un quadro di industrie italiane mature sul piano dell’efficienza, ma ancora «prevalentemente reattive» sul fronte digitale. La sfida, oggi, è uscire da questa rigidità e connettere la digitalizzazione alla crescita delle competenze umane, per evitare che la distanza tra tecnologia e persone si traduca in un freno strutturale alla competitività.

Cinque dimensioni per misurare la maturità industriale

Lo studio di Bonfiglioli Consulting ha coinvolto oltre cento imprese appartenenti a ventidue settori, per l’85% con ruoli di vertice e per la quasi totalità operanti in ambito B2B. La ricerca ha misurato la maturità industriale attraverso cinque ambiti chiave: Operations, Supply Chain, Sostenibilità, Digitalizzazione e Risorse Umane.

Brandalesi ha spiegato che l’obiettivo era «tracciare una traiettoria, capire se possiamo definirla evoluzione o rivoluzione». Per farlo, le aziende sono state collocate su tre livelli di maturità — reattivo, preventivo, proattivo — e i risultati sono stati incrociati per individuare correlazioni tra efficienza operativa, digitalizzazione e impatto delle risorse umane.

Secondo i dati, le performance risultano solide in ambito operations (71%) e sostenibilità (89%), ma la digitalizzazione si ferma al 48% di maturità, il valore più basso tra le cinque dimensioni analizzate.

Digitalizzazione: un’Italia che fatica a scalare

Per Brandalesi, la fotografia è chiara: «Il nostro campione è prevalentemente reattivo, siamo ancora nella zona della rigidità». Ciò significa che molte imprese operano ancora con logiche di risposta e contenimento, più che di previsione e innovazione.

Nonostante la diffusione di tecnologie consolidate come ERP (73%) e CRM (34%), l’adozione di strumenti più avanzati resta marginale: Digital Twin (9%), robotica avanzata (12%) e realtà aumentata e virtuale (22%). La penetrazione dell’intelligenza artificiale è minima: il 55% delle aziende non l’ha ancora implementata, solo il 3% la utilizza in modo strutturato, mentre la Generative AI è integrata nei processi quotidiani appena dal 9%.

La distanza non è solo tecnologica. Come ha osservato Brandalesi, tra il 2023 e il 2025 «non è cambiato niente» nella percezione del grado di digitalizzazione: le aziende si percepiscono meno avanzate rispetto a due anni fa. Questo arretramento, spiegato come una reazione di cautela, nasce anche dal ritmo del cambiamento: «Ora che ho fatto un’implementazione è già vecchia», ha commentato il relatore, segnalando un effetto di obsolescenza accelerata che frena nuovi investimenti.

Il 72% delle imprese destina tra l’1% e il 5% del fatturato alla digitalizzazione, con un ulteriore 21% che si spinge fino al 10%. Pochi superano quella soglia. È un segnale che la trasformazione digitale, pur riconosciuta come prioritaria, non è ancora vissuta come leva strategica, ma come percorso da gestire con prudenza.

Persone e tecnologia: due mondi che non si parlano

Uno degli aspetti più critici rilevati nella ricerca riguarda la scarsa correlazione tra operations e risorse umane. Brandalesi lo definisce così: «Questi due mondi non si parlano, vivono in due ampolle separate».

Il dato conferma una frattura culturale che attraversa l’intero sistema industriale. Le aziende analizzate mostrano un basso livello di HR Impact Score, segno che la componente umana fatica a tenere il passo dell’automazione e della digitalizzazione.

Nel 2025, il 92% delle imprese ha investito meno del 5% del fatturato in formazione, e solo il 6% ha superato quella soglia. Nonostante la consapevolezza diffusa dell’importanza delle competenze digitali, queste restano in fondo alle priorità di ricerca dei candidati. Brandalesi lo ha definito «un dato preoccupante»: le competenze in ambito AI si collocano al decimo posto tra le skill richieste.

A questa distanza tra tecnologia e cultura aziendale si somma la difficoltà di stimolare una partecipazione attiva dei lavoratori alla trasformazione. Secondo Brandalesi, «bisogna uscire dalla fase reattiva anche sul fronte umano, basta persone demotivate o escluse dai processi decisionali». La digitalizzazione, infatti, non è solo un fatto tecnico: richiede una riorganizzazione profonda della leadership, dei modelli di lavoro e delle forme di apprendimento continuo.

La supply chain tra stabilità e fragilità

Un altro fronte cruciale riguarda la supply chain, che secondo Brandalesi «resta in un regime tipicamente reattivo». La mancanza di stabilità produttiva è, a suo giudizio, uno dei principali limiti del sistema industriale. «La stabilità è il prerequisito del miglioramento continuo. Senza stabilità non possiamo introdurre nuovi elementi tecnologici», ha spiegato, richiamandosi ai principi del Lean Production System.

Le catene di fornitura italiane mostrano ancora debolezze endogene, legate alla mancanza di processi standardizzati e all’assenza di strumenti di controllo in tempo reale. Tuttavia, proprio qui la tecnologia può svolgere un ruolo determinante: sensori, robotica e sistemi IoT rappresentano, per Brandalesi, «le nostre sentinelle fisiche dentro la fabbrica», capaci di costruire un sistema nervoso digitale che connetta le informazioni e permetta di reagire con maggiore prontezza agli imprevisti.

La digitalizzazione hardware, osserva, è ancora poco considerata rispetto alla parte software, ma rimane essenziale: «La fisica vuole la sua parte». Il futuro delle operations passa quindi dalla capacità di integrare la dimensione fisica e quella digitale in un’unica logica di controllo e adattamento.

Formazione e responsabilità manageriale

L’intervento di Brandalesi si chiude con una riflessione sul ruolo dei manager e sulla necessità di investire in formazione strategica. Secondo la ricerca, la maggior parte dei budget formativi non prevede aumenti per il 2026, nonostante il cambiamento sia ormai percepito come inevitabile.

Brandalesi invita i leader industriali a un cambio di prospettiva: «Dobbiamo portare le nostre persone fuori dall’area reattiva, costi quel che costi». Un’espressione che non va letta come uno slogan, ma come un monito pratico: la trasformazione digitale non può essere demandata a piani di formazione marginali o vincolati a incentivi esterni.

Nel suo intervento, ha criticato la tendenza a «fare formazione solo perché te la finanziano o perché arriva il 10 di novembre e devi fare il piano dell’anno». È un approccio, ha detto, «finito», che non prepara le imprese al salto che le attende. La trasformazione digitale in Italia non dipende solo dalle tecnologie adottate, ma dalla volontà di accompagnare le persone fuori da un modello reattivo e verso una cultura di decisione consapevole e competenza diffusa.

La traiettoria della trasformazione

L’analisi di Bonfiglioli Consulting mostra che l’industria italiana non è ferma, ma procede a velocità diseguali. Le aziende hanno interiorizzato i principi di efficienza e sostenibilità, ma la piena trasformazione digitale resta da compiere.

Per Brandalesi, il nodo non è solo tecnologico: «Fino a quando ci sarà permesso di parlare di evoluzione, dovremo chiederci se siamo pronti». La domanda resta aperta, ma indica la direzione di marcia: costruire un’industria meno reattiva e più consapevole, capace di far dialogare persone, processi e tecnologie in un ecosistema realmente intelligente.

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