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AI readiness, 5 domande da porsi per misurare la maturità digitale



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La corsa all’intelligenza artificiale impone alle aziende di misurare la propria AI readiness: un percorso continuo (non un progetto) che intreccia cultura, dati e governance. L’esperienza di ManageEngine

Pubblicato il 21 ott 2025



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Negli ultimi anni, il dibattito sull’AI readiness ha progressivamente superato la retorica dell’adozione tecnologica per entrare nel cuore della strategia aziendale. Come ha spiegato Rajesh Ganesan, CEO di ManageEngine, nel corso del ManageEngine User Conference 2025, l’intelligenza artificiale non rappresenta una fase di discontinuità, ma una tappa in un viaggio molto più lungo: quello della trasformazione digitale. La riflessione di Ganesan, maturata dopo oltre vent’anni di evoluzione del software enterprise, offre uno spaccato utile per capire come misurare la maturità digitale delle organizzazioni e cosa significhi, oggi, essere davvero un’impresa pronta all’AI.

L’AI readiness come stadio evolutivo della trasformazione digitale

Secondo Ganesan, la trasformazione digitale non è un progetto, ma un processo permanente. È un percorso in cui ogni azienda, indipendentemente dal settore, attraversa tappe di apprendimento e ridefinizione. L’AI readiness si colloca in questo continuum, come fase in cui l’intelligenza artificiale smette di essere sperimentazione per diventare fattore sistemico di efficienza.

Nel suo intervento, il manager ha usato una metafora precisa: «Viviamo in un mondo digitale dove il dispositivo è un’estensione della nostra identità». A partire da questa constatazione, Ganesan individua quattro stadi fondamentali di maturità.

  • Il primo è quello dei “sistemi di insight”, dove i dati vengono digitalizzati e strutturati per la prima volta.
  • Da qui si passa ai “sistemi di workflow”, in cui l’automazione inizia a rendere i processi ripetibili e tracciabili.
  • Il terzo livello riguarda i “sistemi di experience”, che mettono le persone — dipendenti o clienti — al centro, abilitando un’interazione fluida e sicura con i servizi digitali.
  • Solo dopo aver consolidato queste tre dimensioni, sostiene Ganesan, un’organizzazione può costruire un “sistema di intelligence”, cioè quella capacità di usare i dati e l’AI in modo realmente strategico.

L’AI readiness, dunque, non nasce da un investimento specifico o da un tool di ultima generazione, ma da un processo di sedimentazione: ogni fase prepara la successiva. È un concetto che richiama i modelli di maturità dell’IT Service Management, ma li supera in ampiezza e ambizione, estendendosi all’intera cultura organizzativa.

Dal caso SpaceX alla cultura dell’efficienza

Per spiegare la differenza tra innovazione episodica e progresso strutturato, Ganesan richiama un esempio simbolico: la SpaceX di Elon Musk. «L’obiettivo non è lanciare un razzo e recuperarlo — osserva — ma costruire le condizioni per rendere sostenibile un sogno di lungo periodo, come la civiltà multiplanetaria».
Nel linguaggio aziendale, questa idea si traduce nella necessità di definire obiettivi chiari e coerenti prima ancora di adottare nuove tecnologie. L’AI, come i razzi riutilizzabili di SpaceX, rappresenta solo una tappa di un percorso che richiede continuità, capacità di apprendere dagli errori e un approccio disciplinato ai processi.

Il riferimento non è casuale: per Ganesan, la crescita di SpaceX incarna alcune delle competenze essenziali per la maturità digitale — visione, resilienza e attenzione ai fondamentali. Quando l’innovazione fallisce, aggiunge, non è un problema di strumenti, ma di mindset. La resilienza organizzativa diventa così parte integrante della AI readiness, perché solo chi sa rialzarsi rapidamente dopo un errore è in grado di sperimentare in modo sostenibile.

Le cinque domande guida per misurare la maturità digitale

Ganesan propone una sorta di autodiagnosi per capire se un’impresa è pronta all’intelligenza artificiale. Le sue cinque domande — che riprendono i principi osservati nei modelli di leadership di SpaceX — formano una vera e propria griglia di lettura manageriale.

  1. L’azienda ha chiarezza e convinzione nei propri obiettivi di trasformazione? Senza una direzione strategica chiara, l’AI rischia di diventare solo sperimentazione.
  2. C’è ottimismo realistico? L’entusiasmo per la tecnologia deve essere bilanciato dalla consapevolezza dei limiti operativi.
  3. Quanto è diffusa la conoscenza dei principi di base dell’AI? Per il CEO di ManageEngine, «non si può sfruttare una tecnologia senza comprenderne i fondamenti».
  4. I decisori sanno combinare istinto e dati? Il valore aggiunto dell’AI non è sostituire l’intuizione umana, ma rafforzarla con evidenze.
  5. L’organizzazione è resiliente di fronte all’errore? L’adattabilità è l’ultimo indicatore di maturità digitale.

In questa prospettiva, la AI readiness diventa un criterio di valutazione della cultura aziendale, non solo delle sue infrastrutture tecnologiche.

AI che lavora per noi, e non il contrario

Tra i passaggi più citati del discorso di Ganesan c’è la definizione del vero punto di svolta: «Se stai ancora lavorando per far funzionare l’AI, non sei ancora AI ready».
La frase sintetizza un principio chiave: l’automazione non deve aumentare la complessità, ma ridurla. In altre parole, un’azienda è pronta all’AI quando le sue persone possono concentrarsi sul valore, e non sulla manutenzione dei sistemi intelligenti.

Il percorso verso questa condizione è tutt’altro che lineare. Lo stesso Ganesan riconosce che la propria organizzazione ha impiegato due anni, tra il 2023 e il 2025, per passare dalla sperimentazione dei modelli generativi ai primi benefici concreti, pari a circa il 10% dell’efficienza sui processi interni. Il dato, seppur legato a un caso specifico, mostra la realtà della curva di apprendimento: i vantaggi dell’AI emergono nel medio periodo, quando le tecnologie si innestano su processi già maturi.

Dal digitale all’intelligente: costruire sistemi che si parlano

Essere AI-ready significa anche integrare il lavoro umano, i dati e le applicazioni in un ecosistema coerente. Ganesan ha ricordato come la prima rivoluzione digitale sia stata quella del dato — «la trasformazione dei documenti cartacei in sistemi di record». Da lì è nato il bisogno di efficienza, poi di esperienza utente, e infine di intelligenza.

Oggi, questa sequenza può essere letta come un ciclo evolutivo che riguarda tutte le imprese digitalizzate. Le organizzazioni che non hanno ancora consolidato i propri sistemi di insight e workflow difficilmente potranno ottenere benefici reali dall’AI. Senza una base dati affidabile, l’automazione intelligente si riduce a mera sperimentazione.

Al contrario, quando i flussi informativi e decisionali sono già integrati, l’intelligenza artificiale può operare “in background”, supportando l’attività senza richiedere continua supervisione. È questo, secondo Ganesan, il punto di equilibrio dell’AI readiness: la tecnologia diventa parte silenziosa del processo, non protagonista visibile.

Il ruolo della governance nella maturità AI

Nel delineare il concetto di impresa pronta all’intelligenza artificiale, Ganesan attribuisce un ruolo centrale alla governance. La fiducia nei sistemi automatizzati — e nella loro capacità di rispettare privacy, sicurezza e compliance — è ciò che consente di adottarli in modo esteso.

Senza governance, l’automazione rischia di moltiplicare le vulnerabilità anziché ridurle. Ecco perché l’AI readiness non è mai solo questione di performance, ma di responsabilità. Le aziende devono essere in grado di sapere dove scorrono i dati, chi li controlla e con quali regole. L’intelligenza artificiale amplifica il valore dei dati solo se questi sono governati, protetti e accessibili in modo controllato.

La sfida, osserva Ganesan, è «far lavorare l’AI per te, non per altri», un richiamo non tanto al possesso delle piattaforme, quanto alla capacità di mantenere il controllo sul proprio patrimonio informativo. In altre parole, la readiness si misura anche dalla capacità di trasformare la tecnologia in un’estensione della propria governance.

AI readiness come cultura, non come progetto

Il concetto di AI readiness sintetizza così una visione ampia: l’impresa del futuro è quella in cui intelligenza artificiale, dati e persone coesistono in equilibrio, in un sistema che apprende e si adatta. Non si tratta di adottare nuovi strumenti, ma di creare le condizioni perché gli strumenti lavorino davvero al servizio dell’organizzazione.

La lezione, nel fondo, è di metodo più che di tecnologia: la maturità digitale non si misura in numero di algoritmi, ma nella capacità di usarli con consapevolezza, responsabilità e continuità. È questa la differenza tra un’impresa connessa e un’impresa intelligente — la differenza, per dirla con le parole di Ganesan, tra vivere la trasformazione digitale e farla accadere ogni giorno.

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