Come far crescere in azienda nuove competenze?

Gli amministratori delegati delle grandi imprese italiane cominciano a ricercare il ritorno alla trasmissione dei valori aziendali e la crescita dall’interno. Dopo la fine delle grandi scuole d’impresa, basteranno le business school per sostituirle o sarà necessario ricreare una formazione interna alle aziende? Dove sono oggi i “vivai della conoscenza”?

Pubblicato il 19 Dic 2005

“Quali manager per la società della conoscenza?” è il titolo del convegno organizzato per celebrare il suo trentesimo compleanno da Rso, azienda che definisce se stessa come “knowledge company che realizza, in partnership con i suoi clienti, progetti di innovazione organizzativa e gestionale”. Studiosi, accademici, imprenditori, manager e rappresentanti delle istituzioni sono stati “intervistati” da Rso su quali modelli e culture di management servano oggi, se i vecchi modelli siano stati aggiornati ai nuovi bisogni, se le scuole di management siano in grado di trasferire capacità di visione, spessore culturale, capacità creative necessari per affrontare l’attuale complessità.
E’ impossibile rendere conto del dibattito di un’intera giornata e quindi abbiamo scelto di affrontare una tema emerso in modo ricorrente nella tavola rotonda, coordinata da Marina Montironi, Direttore Generale e Senior Partner di Rso, e in quella coordinata da Paolo Montobbio, Amministratore delegato Rso: Come far crescere le nuove competenze manageriali all’interno dell’azienda visto che non esistono più le le grandi scuole d’impresa che hanno formato i manager da dopoguerra a pochi anni fa?

Dove sono le grandi scuole d’impresa?
Alle domande di Montironi se esista un profilo del management della conoscenza, capace di fare innovazione, su quali siano le caratteristiche ricercate e quali siano le azioni per renderle più forti, Mauro Moretti, Amministratore Delegato Rete Ferroviaria Italiana risponde: “Abbiamo i manager giusti per le sfide che abbiamo davanti? Difficile risposta, ma direi di sì perché siamo un paese di profonda cultura;abbiamo attraversato importanti esperienze, anche molto travagliate, e siamo riusciti comunque a trovare delle vie d’uscita”. Ma poi, analizzando la capacità di fare impresa con progetti strategici condivisi e tecnologie riconosciute a livello internazionale, ammette: “Credo che il problema delle grandi scuole di management in Italia sia la questione fondamentale: non possiamo più andare avanti con capitani di ventura che girano da un’impresa all’altra. Le grandi imprese nel mondo vivono perché hanno una grande scuola, hanno una grande capacità di costruire, selezionare i propri dirigenti e normalmente arrivano ai vertici di queste imprese quelli che sono stati fatti all’interno”. Esempi come General Electric, Siemens e molte imprese in giro per l’Europa non mancano. “Bisogna dunque cercare di ricostruire il vivaio della conoscenza”, conclude Moretti.
Il punto di vista espresso da Carlo Pesenti, Amministratore Delegato Gruppo Italcementi, è quello di un’azienda che sta cercando di crescere anche sul mercato internazionale, con l’obiettivo di diventare un operatore globale e ha dunque l’esigenza di trovare manager in linea con questi obiettivi: “Oggi è difficile in Italia individuare e selezionare persone già formate in grado di sostenere dei piani di sviluppo come i nostri. Le grandi scuole di manager degli anni ’70-’80 erano Olivetti, Fiat, Pirelli, l’Eni, che è rimasta. Molte di queste scuole, che hanno formato grandissimi manager, sono sparite”. Non resta quindi che iniziare a costruire e lavorare da zero e quindi poter crescere un proprio vivaio di persone, di giovani, che abbiano il potenziale per riuscire a ricoprire poi dei ruoli sempre crescenti.
“La classe dirigente dovrebbe essere vista come un insieme di persone che hanno delle competenze o delle qualità e sono in grado anche di lavorare insieme”, sostiene Luca Majocchi, Amministratore Delegato Seat. “Personalmente attribuisco una grande importanza alle persone e alla formazione, tant’è che noi abbiamo una Corporate University in Seat ed io ci insegno. Voi direte: un amministratore delegato dovrebbe avere meglio da fare del suo tempo, piuttosto che insegnare ai suoi manager. Al contrario dedico molte ore alla formazione, proprio alla classe manageriale, perché altrimenti noto uno stacco. La stessa quantità di tempo la destino nella scelta delle persone, per selezionarle, dare loro delle regole ed esserne io stesso il primo assertore”.
Rimpiange la scuola d’impresa anche Luigi Amato Molinari, Presidente Alleanza Assicurazioni: “Non so come mai non abbiamo capito quanto fosse importante avere delle scuole d’impresa; non capisco perché le abbiamo abbandonate. Molti mi dicono: ‘per motivi di bilancio e per i costi’. Io li ho considerati investimenti”. Secondo Molinari la causa vera è nella mancanza di abitudine a prevedere investimenti che non abbiano ritorni brevissimi e a non contabilizzare come investimanto le risorse derivanti da un management qualificato e indirizzato, cresciuto all’interno.

Voglia di continuità
Nella situazione attuale “sono sempre le stesse persone che girano, andando a creare ‘squadrette’ molto capaci che in parte si reggono sul sistema di cooptazione e qualche volta premiamo la fedeltà rispetto alla competenza. Queste vengono chiamate nei momenti di crisi a creare la cosiddetta ‘discontinuità’, ma questa, se ha un suo termine, può rappresentare un valore; se è una discontinuità continua, secondo me diventa un disvalore perché crea un clima di sfiducia nei confronti dei manager dell’azienda che vedono arrivare degli altri che stanno magari un periodo non lunghissimo e poi passano altrove e vengono sostituiti da un altro team”, sottolinea Molinari.
Il tema della discontinuità viene affrontato anche da Tomaso Tommasi di Vignano, Presidente Gruppo Hera: “Questi ultimi 10 anni ci hanno fatto vedere alcune distorsioni di gestione delle risorse umane che non potevano non lasciare il segno, e queste politiche le abbiamo fatte noi. La prima di queste fasi messa a repentaglio dai comportamenti dei capi azienda, senza generalizzare, è proprio quella che incide sui criteri di selezione e di costruzione delle squadre. In questo senso mi sembra che abbiamo avuto degli esempi addirittura orripilanti: io le chiamo le transumanze. Abbiamo visto capi azienda che entrando nell’impresa cambiavano tutta la prima linea e qualche caso in cui la transumanza è stata a livello di centinaia di persone, fino alle dattilografe, senza che nessuno abbia detto niente. Allora ci domandiamo: perché non ci sono più le scuole? Sembrava quasi che l’obiettivo fosse di eliminarle per dare all’esterno un segnale di discontinuità invece di costruire un mix adeguato tra le risorse interne ed esterne.
Emerge dunque una voglia di stabilità e la volontà di ricostruire una relazione fondante fra mangement e azienda, di allineamento ai suoi valori. E ciò non si ottiene solo con le stock option. Ancora Tommasi: “I valori che l’azienda persegue sono qualcosa di diverso: se questo non avviene è chiaro che non si può creare stabilità neanche per quella parte di cui l’azienda avrebbe bisogno”.
Anche secondo Umberto Quadrino, Amministratore Delegato Edison “si è molto esagerato nel voler cambiare il team. La discontinuità è necessaria perché il mondo cambia e certe volte bisogna adattarsi effettivamente ai cambiamenti con una grande rapidità, quindi creare una discontinuità. Ma discontinuità del vertice non vuol dire discontinuità automatica di tutta la squadra; anzi, lo considero un segno di debolezza se il vertice si può fidare soltanto dei soliti collaboratori che si porta da un’azienda all’altra”.
Rifacendosi alle analisi della Fondazione Edison, Quadrino ricorda “la crisi dei pilastri” dell’economia (ossia le grandi imprese), la difficoltà dei distretti che erano e sono il grande punto di forza dell’economia italiana, la debolezza delle cosiddette “reti”, che sono sia quelle di tipo “hard”, come ferrovia ad alta velocità, grandi infrastrutture di telecomunicazioni, sia quelle “soft”, ossia centri di formazione, centri di ricerca ecc.: “In questo contesto la crisi dei gruppi è molto grave per la formazione del management perché non ci sono più le grandi scuole: non c’è più l’Olivetti, la Fiat ha molto ridimensionato o ha abolito il suo, l’Iri non c’è più e l’Iri era una grande scuola quadri, nel bene o nel male; la Montedison non c’è più. Fra vent’anni quali manager incontrerò? Dove va un bravo laureato della Bocconi oggi: va alla Mckinsey?

Managers Not MBA
Per chi avesse ipotizzato di sostituire le grandi scuole aziendali che hanno creato i manager dedichiamo, come conclusione, le considerazioni di Franco Quillìco, docente, consulente e formatore presso Politecnico di Milano, MIP e International University di Monaco. Su sollecitazione di Paolo Montobbio, amministratore delegato RSO, Quillìco esprime la sua opinone sulle provocazioni di Henry Mintzberg, un universitario canadese, considerato uno dei più grandi guru del “management della strategia”, noto per le sue tesi non convenzionali. “Un anno fa circa, Henry Mintzberg ha pubblicato un libro che si chiama ‘Managers Not MBAs’ che ha avuto un successo enorme in nord America e un po’ in tutto il mondo”, è la risposta del professore. “Nel libro ci sono alcuni spunti molto interessanti che mettono in discussione assiomi della business education anglosassone. In primo luogo secondo Mintzberg i programmi convenzionali di Mba sono dei programmi di training nelle diverse discipline (finanza, contabilità, strategia) e non sono, invece, dei programmi di educazione nella pratica del management”. La maggior parte delle Business School privilegerebbe dunque un approccio quantitativo e scientifico, mentre il management sarebbe, secondo Mintzberg, in larga parte un’arte e soprattutto un’attività di facilitatore. “Uno dei piatti forti delle Business School è il cosiddetto ‘Management by Analysis’ che trascura la parte soft, cioè interpersonale del processo decisionale, per privilegiare quella hard, cioè quella quantitativa.”, ricorda ancora Quillìco.

Da sinistra a destra: Eugenio Aringhieri, amministratore delegato di Dompè – Alberto Lina, amministratore delegato di Impregilo – Luca Majocchi, amministratore delegato di Seat – Luigi Amato Molinari, presidente Alleanza Assicurazioni – Mauro Moretti, amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana – Marina Montironi, direttore generale e senior partner di Rso – Carlo Pesenti, amministratore delegato di Italcementi – Umberto Quadrino, amministratore delegato di Edison – Tomaso Tommasi, amministratore delegato Gruppo Hera – Murizio Tucci, amministratore delegato di Selex Communication


LA FAVOLA INDIANA DEL PROFESSOR QUILLICO
Franco Quillico, docente, consulente e formatore al Politecnico di Milano, al Mip e all’international University di Monaco, ha conculso il suo intervento con una favola indiana, che ci aiuta a comprendere come per capire un sistema complesso, un’impresa o un’organizzazione, non sia affatto sufficiente analizzarne tutte le parti ma occorra anche un approccio olistico.
“La favola racconta di sei uomini dell’Indostan molto portati all’apprendimento che decisero, sebbene fossero tutti ciechi, di andare a vedere un elefante. Non appena arrivati sul posto il primo si avvicinò all’elefante e, dopo essersi scontrato con il fianco largo e vigoroso dell’animale, esclamò: ‘Che Dio mi benedica, ma l’elefante è proprio come un muro!’. Il secondo, palpando la zanna, gridò: ‘Così liscia ed acuminata l’elefante non può essere che una lancia’. Il terzo si avvicinò all’animale e, sfiorando la proboscide, sentenziò: ‘L’elefante è proprio come un serpente’. Il quarto fece scivolare la mano sopra il ginocchio e, dopo un attimo di riflessione, concluse: ‘Mi è molto chiaro, l’elefante è proprio come un albero’. Il quinto toccò un orecchio sventolante e disse: ‘Che meraviglia, l’elefante è proprio come un ventaglio’. Il sesto andò a tentoni e, non appena ebbe la fortuna di afferrare la coda dondolante, esclamò: ‘Sono certo, l’elefante è come una fune’. E così gli uomini dell’Indostan disputarono concitatamente rimanendo, alla fine, ognuno della propria opinione e, sebbene ognuno di essi avesse parzialmente ragione, tutti erano in torto”. (E.B.)

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