Prospettive

Forum PA 2020: le imprese bene comune, per innovare il Paese

L’impresa è stata protagonista di una tavola rotonda nel corso di Forum PA 2020, che ha visto il confronto fra esponenti della politica nazionale e locale, docenti ed esperti di politica industriale e di imprenditorialità innovativa. Può sembrare singolare parlare di impresa come bene comune ma, come ha evidenziato Maria Ludovica Agrò, Curatrice Scientifica Forum PA Sud, idea di impresa che deve partecipare alle sfide del Paese per una crescita sostenibile è già presente nella Costituzione. Quali sfide si pongono oggi per le imprese in fase ricostruzione post Covid? Quali strumenti per raggiungere gli obiettivi?

Pubblicato il 23 Lug 2020

FPA 2020

“Le imprese, nella visione tradizionale, sono il contrario del bene comune – è l’esordio di Gian Paolo Manzella, Sottosegretario allo sviluppo economico, intervenendo alla Tavola Rotonda Le imprese come bene comune: misure e incentivi per orientare la capacità innovativa del Paese, organizzata da Forum PA e alla quale hanno partecipato esponenti della politica nazionale e locale, docenti ed esperti di politica industriale e di imprenditorialità innovativa – Tuttavia elementi di responsabilità sociale da tempo sono presenti e i valori di impresa dovrebbero essere patrimonio comune fin dalla scuola”. Lo stesso tema della responsabilità sociale, interpretato fino a poco tempo fa dalle imprese come un dovere, ha subito un’evoluzione che la PA dovrebbe seguire e stimolare. “Le grandi imprese e quelle a partecipazione pubblica dovrebbero assumersi la responsabilità verso chi lavora con loro e nel loro territorio, in un Paese con gravi carenze di managerialità che affliggono le Pmi”.

Da parte sua, Alex Giordano, Docente Università di Napoli “Federico II” e Direttore scientifico di Societing 4.0, sostiene che l’impresa, come espressione della proprietà privata, non è per definizione bene comune: “Il bene comune non è l’impresa ma l’ecosistema dove le imprese possono cooperare in vista di un futuro sostenibile, nei territori, nelle citta, nei sistemi di relazione con i cittadini, oggi anche l’info-sfera”. Lo evidenzia la ricerca Societing 4.0, in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli e la camera commercio di Salerno, che ha coinvolto oltre 500 imprese, nella maggioranza piccole e piccolissime. “Nei piccoli borghi le imprese svolgono un ruolo importante, offrendo lavoro, formando le persone, investendo risorse per la comunità. Non producono solo merci ma contribuiscono a mantenere pezzi importanti di identità”. Un esempio per tutti la Cooperativa Nuovo Cilento che, con 400 soci, ha aiutato i paesi nell’interno a sopravvivere e ha dimostrato che, senza aspettare sussidi ma operando insieme, è possibile fare innovazione tecnologica. Sono stati introdotti trattori robotizzati telecomandati, per diminuire il rischio del lavoro nelle aree collinari pericolose e realizzato un frantoio 4.0 capace di perpetuare la tradizione della produzione dell’olio.

“L’assunto impresa bene comune vale proprio nel mezzogiorno, un concetto che va rafforzato per una prospettiva di crescita duratura”, sostiene Massimo Sabatini, Direttore Generale – Agenzia per la Coesione territoriale, facendo riferimento al grande divario territoriale che caratterizza il Paese. Le imprese del Mezzogiorno sono più piccole della media italiana (per il 96% hanno meno di 10 addetti) e impiegano solo il 6% dei dirigenti italiani; sono dunque meno strutturate, con minore produttività, meno redditività, meno apertura all’estero, meno capacità di investire in ricerca.

“L’impresa non è bene un comune essendo privata ma è l’unico motore per generare valore e ricchezza. Questa ovvietà sembra non sia ancora chiara in Italia”, sostiene Andrea Rangone, Presidente Digital360 e professore di Digital Business Innovation, Politecnico di Milano, sottolineando che solo un’impresa florida produce ricchezza, Pil e occupazione.

Fra le condizioni per la competitività c’è lo sviluppo del capitale umano, sostiene Mirta Michilli, Direttore Generale – Fondazione Mondo Digitale, che si occupa di formazione dei giovani. “L’idea di impresa come bene comune è diffusa, ma stiamo al tempo stesso vivendo una deriva neo-statalista che fa leva sulle disuguaglianze crescenti ed è contraria all’impresa”. Eppure, la preoccupazione dovrebbe focalizzarsi sui troppi giovani senza diploma e con competenze fragili (il doppio della media UE) e sull’alto tasso di analfabetismo funzionale. Per avere imprese competitive, servirebbero competenze digitali (mentre solo l’1% dei laureati è in ambito ICT) e competenze tecnico-specialisti, possedute solo dal 2,8% della popolazione.
Per non parlare del gender gap che vede l’Italia al 67-esimo posto. “Le ragazze vanno molto bene finché sono inserite nel mondo dell’istruzione ma hanno difficoltà nel mondo del lavoro, soprattutto al Sud; nelle aziende resta il tetto di cristallo che vede ai vertici solo il 21% donne e un gap salariale fino al 20%”.

Cosa abbiamo imparato dal lock-down

Dall’esperienza della pandemia è emerso il ruolo della digitalizzazione. “Il lockdown ha realizzato un switch-off: chiuso l’analogico abbiamo capito che solo con il digitale si può sopravvivere”, dice Rangone che vede nel dramma Covid anche un potente catalizzatore per la trasformazione digitale. Abbiamo capito che non basta avere tante imprese, ma servono imprese competitive, innovative e produttive che producono ricchezza e con lockdown ci siamo resi conto che nessuna impresa può sopravvivere ed essere competitiva senza cogliere il valore del digitale. “Siamo nel bel mezzo della 4° rivoluzione industriale: il digitale non è un nice to have, ma rappresenta oggi quello che rappresentava l’energia elettrica, di fine ‘800”, spiega.
Secondo Giordano l’emergenza Covid ha fatto emergere un nuovo elemento: “Non serve tanto un nuovo modello di fabbrica (la robotica era presente fin dagli anni ‘80) ma un modello sociale nuovo dove come Italia possiamo fare da guida grazie a un ecosistema imprenditoriale che vede insieme grandi e piccole imprese, territori, biodiversità,… per concorrere a creare un ecosistema 4.0 che rappresenta la vera rivoluzione”.

Gli strumenti per una crescita innovativa

Soprattutto per le aree del Mezzogiorno andrebbero affrontate le criticità e sfruttati i punti forza suggerisce Sabatini che punta a una strategia basata su pochi punti: “Sfruttare e rafforzare le competenze, migliorare l’innovazione, favorire la crescita dimensionale e patrimoniale, favorire l’internazionalizzazione e l’apertura, con una specializzazione intelligente basata sulle capacità di un territorio”. È questa l’impostazione del Piano Sud 2030, lanciato prima dell’emergenza Covid che affida all’Agenzia il compito di accompagnare le imprese nella maturazione e aiutarle ad essere sempre più bene comune per i territori. Analogo l’approccio del dl Rilancio per rafforzare la propensione alla ricerca delle imprese del Sud grazie a un credito di imposta superiore rispetto al resto del territorio nazionale.
Per il capitale umano Michilli propone un progetto sistemico per Paese basato su una grande alleanza, contro la povertà educativa, fra pubblico, privato e terzo settore, mentre per superare il gender gap è indispensabile da un lato un intervento legislativo e dall’altro” raccontare alle ragazze dove sono i lavori più creativi”.
Rangone porta l’accento sulle nuove imprese che generano la stragrande maggioranza del Pil nei paesi maturi, ricordando che l’Italia se ne è accorta solo nel 2012 con il programma Restart Italia. “Oggi il clima è favorevole e finalmente il bicchiere si sta riempiendo, grazie alla crescita di un ecosistema virtuoso dell’imprenditorialità hi-tech e alla qualità degli incubatori”, sottolinea considerando un’ottima novità il Fondo nazionale dell’innovazione e i provvedimenti del DL Rilancio. “Non c’è mai stato un contesto favorevole all’imprenditorialità come quello che ci sarà nei prossimi 5-10 anni”, prevede.
Nelle sue conclusioni Manzella parte dal modello che ha portato ai sopracitati provvedimenti sulle startup sia per un clima favorevole a livello politico, con alcuni ministri e parlamentari particolarmente impegnati sui temi dell’innovazione, sia per il ruolo attivo e propositivo delle associazioni. A questi si è aggiunto un atteggiamento positivo della stampa che ha denunciato i rischi per quel sistema di R&D a cielo aperto generato dalle startup.
“Questo modello andrebbe replicato per la maggior parte dei temi di cui abbiamo discusso oggi. Nonostante le provenienze e le ottiche diverse ci siamo trovati tutti d’accordo sulle cose da fare, che sono le stesse indicate nelle linee Ue, come transizione verde e digitale, costruzione di ecosistemi industriali, necessità banda ultra-larga, superamento del gender gap. La pandemia ha semplicemente accelerato queste esigenze”.

Il tema non è dunque cosa fare, ma farlo presto.

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