Giovani e lavoro: questione di skill

Cosa rende il passaggio dei giovani al mondo del lavoro così critico? Che ostacoli impediscono a domanda e offerta di incontrarsi? Con la survey “Education to Employment: Getting Europe’s Youth into Work”, McKinsey&Company risponde a queste domande e trova ancora nella mancanza di skill una delle principali ragioni per cui le imprese, anche quando hanno posizioni aperte, non assumono. È necessario creare un ponte solido tra enti formativi e aziende, ed è necessario farlo in fretta, prima che il fantasma di una “lost generation”, perennemente esclusa dal mercato del lavoro, diventi realtà. La tecnologia può fornire un contributo prezioso.

Pubblicato il 04 Nov 2014

L’Europa è stata nel 2013 il territorio con la più bassa percentuale di occupazione giovanile del mondo (fatta eccezione per il Medioriente e il Nordafrica a causa della fortissima instabilità dell’area). Secondo i dati Eurostat (Labour Force Survey), quasi un quarto dei giovani era senza lavoro. Un problema radicato, dal momento che il tasso di disoccupazione è stato del 20% o più per 11 degli ultimi 20 anni, ma certo la crisi ha fatto esplodere il fenomeno in modo allarmante: il rischio è il concretizzarsi di una “lost generation”, per sempre esclusa da un mercato del lavoro che nega ogni accesso. L’Europa, una delle regioni più sviluppate del mondo, non sta riuscendo a contrastare efficacemente questa malattia sociale. Cosa rende il passaggio formazione-lavoro tanto difficile? Quali sono, al di là della crisi, le ragioni che impediscono a domanda e offerta di incontrarsi? McKinsey&Company ha dedicato al tema una imponente survey che ha coinvolto in 8 paesi europei (Uk, Francia, Germania, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Svezia) 5300 giovani dai 15 ai 24 anni, 2600 datori di lavoro, 700 enti di formazione, e che si è posta l’obiettivo di analizzare la situazione e individuarne le criticità, per poi proporre delle soluzioni attuabili per fronteggiare l’allarme.

Mancano le competenze, anche quelle di base

Figura 1 – fonte: ricerca McKinsey&Company “Education to Employment: Getting Europe’s Youth into Work”

La tematica delle competenze gioca un ruolo di fondamentale importanza. Secondo i risultati, nonostante l’ampio numero di persone in cerca di una occupazione, le aziende fanno fatica a trovare gli skill di cui hanno bisogno. Il 27% dei datori di lavoro intervistati nella survey dice che la mancanza di competenze adeguate è la ragione principale per cui non vengono riempite in azienda le posizioni aperte; un dato particolarmente significativo se si pensa che tale percentuale è persino più alta (33%) in Grecia, dove i giovani disoccupati sono il 55%, e dunque l’offerta è ancora maggiore: le aziende decidono di non assumere piuttosto che prendersi carico della formazione delle nuove leve. Supporta questa considerazione il fatto che, a eccezione dell’Uk, più di un quarto dei datori di lavoro intervistati dice che la mancanza di skill ha causato problemi significativi al business della propria azienda (figura 1 – si noti che l’Italia è in testa e le percentuali maggiori sono nei paesi dove la disoccupazione è più alta), ragion per cui viene scoraggiato l’inserimento di personale la cui preparazione non sia ottimale. Perché questo accade?

  • Poco dialogo – Una delle ragioni principali risulta essere il fatto che istruzione e lavoro sembrano appartenere a mondi paralleli: secondo la survey, il 74% degli enti formativi pensa che i propri studenti siano preparati per il lavoro, ma i dati rivelano che solo il 38% dei giovani e il 35% dei datori di lavoro è d’accordo; a parte Uk e Germania, non più del 50% di questi ultimi sostiene di aver interagito con degli enti formativi per più volte in un anno, e spesso senza risultati tangibili (figura 2). L’unica soluzione è costruire un ponte lavorando su entrambi i fronti: da un lato gli enti formativi – siano essi università, scuole professionali o superiori – potrebbero focalizzarsi di più su ciò che accadrà agli studenti dopo il ciclo di studi, dialogando con le aziende e studiando con queste curricula meno dispersivi, atti a favorire dei percorsi che sappiano fornire gli skill richiesti dal mondo del lavoro; di contro le aziende, soprattutto le più grandi, potrebbero creare corsi e scuole ad hoc, pensate per formare la propria forza lavoro.
Figura 2 – fonte: ricerca McKinsey&Company “Education to Employment: Getting Europe’s Youth into Work”

Il tirocinio è uno strumento valido, ma soltanto quando si trasforma in un’effettiva occupazione. Considerati solo come mezzi per ottenere lavoro a basso costo, spesso i tirocini non forniscono una preparazione capace di fare la differenza nella ricerca di un impiego.

Di grande utilità è anche lo sviluppo di cosiddetti “system integrator”, organizzazioni che in ciascuno stato (in modo più centralizzato possibile) agevolino il dialogo tra gli attori finora citati e si adoperino per raccogliere e condividere dati legati alle competenze e al mercato del lavoro, valutare piani strategici, promuovere progetti, supervisionarne i risultati ecc., divenendo strumenti capaci di supportare governi ed enti formativi nelle proprie scelte. Un esempio virtuoso è l’Australian Workforce and Productivity Agency (Awpa); nato nel 2012, l’ente fornisce rapporti dettagliati sui bisogni futuri dei settori lavorativi dove si prevede un forte incremento della forza lavoro, permettendo alle istituzioni di muoversi con tempestività.

  • Settori saturi – Un’altra ragione che spiega la mancanza di skill che le aziende lamentano, è che spesso gli studenti seguono percorsi formativi con pochi sbocchi professionali. In alcuni campi in particolare, la crisi ha spostato in modo significativo la domanda: in Spagna per esempio, dal 2005, c’è stato un incremento del 170% di studenti laureati in architettura, ma il settore dell’edilizia nello stesso arco di tempo è decresciuto del 60%. Sarebbe quindi fondamentale informare i giovani sulle prospettive di occupazione di ciascun settore – così da permetter loro di fare scelte consapevoli – e trovare formule di incentivazione per favorire i percorsi più richiesti dal mondo del lavoro.
  • Mancano i “Soft Skill” – All’interno del mondo It si è più volte parlato della mancanza che le aziende lamentano di alcune figure professionali specializzate: si pensi a quelle legate all’ambito dei social o alla domanda di competenze che l’evoluzione degli analytics da un lato e la forza dirompente dei big data dall’altro hanno fatto emergere. Ma la ricerca ha rilevato, dato molto interessante, che i datori di lavoro delle aziende di tutti i settori faticano a trovare persone con competenze anche solo “di base”: abilità di problem-solving, una buona etica del lavoro, capacità nelle relazioni interpersonali. È un altro dato che gli enti formativi dovrebbero prendere in considerazione nella stesura dei propri piani di studio.


Trovare soluzioni, anche grazie alla tecnologia
Quali azioni si possono allora intraprendere, oltre a quelle già elencate, per reagire a questa situazione? Il report spazia da suggerimenti per supportare gli studenti economicamente durante il percorso di formazione, (soprattutto in Portogallo, Italia e Grecia, dove i costi sono considerati insostenibili da più del 38% del panel), a consigli sul versante politico, per esempio suggerendo all’Ue azioni strategiche per favorire la collaborazione tra Paesi e una maggiore mobilità degli studenti: sarebbe estremamente utile consentire a questi non solo di svolgere una parte del proprio percorso scolastico all’estero, come già accade, ma di trasferirsi con agilità in un altro paese per terminare il proprio corso di studi e laurearsi laddove vi è una domanda maggiore. Tante le soluzioni proposte dal report, ma ci interessa sottolineare il ruolo tutt’altro che secondario che gli strumenti tecnologici possono avere in questo percorso di trasformazione.

  • L’e-learning offre evidenti vantaggi logistici ed economici, sia per lo studente, sia per l’ente formativo: l’istruzione diventa accessibile a un maggior numero di persone e la facilità che l’online offre di raccogliere dati per verificare la preparazione degli studenti (almeno rispetto ad alcune categorie di contenuti) aiuta l’insegnante a verificare con cadenze regolari che ciò che viene insegnato sia effettivamente assimilato. Non solo: la possibilità per ciascun studente – soprattutto universitario – di attingere grazie al virtuale a un numero maggiore di corsi, liberandosi dai limiti geografici, favorirebbe la creazione di percorsi formativi più personalizzati, combinando gli insegnamenti in un percorso pensato in funzione delle proprie aspirazioni professionali.
  • Molto preziosa è anche la Gamification, soprattutto per aiutare a colmare quella mancanza di esperienza sul campo che i datori di lavoro lamentano. SimVenture, per esempio, è un gioco che simula la creazione di un business: lo scopo è far crescere un’impresa affrontando aspetti finanziari, logistici, organizzativi, di vendita e di marketing, e si può giocare individualmente o a gruppi di 5, per allenare la capacità di lavorare in gruppo; è stato già usato in più di 150 università nel mondo. Un altro esempio: la catena di fast food Kentucky Fried Chicken, che dà lavoro a 140mila persona in Usa, ha elaborato un gioco on line per insegnare a gestire mansioni come prendere gli ordini dei clienti e ricevere i pagamenti, con un feed back estremamente positivo sulle performance dei neo-assunti.
  • La digitalizzazione, che semplifica raccolta, scambio e rielaborazione dei dati, può favorire enormemente il lavoro dei “system integrator” di cui si è parlato. Sarebbe però utile far confluire i dati in un’unica piattaforma che possa essere un riferimento per tutta l’Ue: l’“European Job Mobility Portal” (Eures) è un tentativo, ancora da perfezionare, di radunare e mettere tutte le informazioni a disposizione di enti formativi, agenzie e datori di lavoro, in una forma tale da evidenziare, per ciascun settore, dove si rilevano mancanze di skill, e quindi promuovere le migliori strategie correttive.

Infine, un’ultima considerazione: il programma dell’Unione europea “Youth Guarantee” mira a offrire a tutti i giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale. Sono stati investiti 8 miliardi di euro. È tuttavia fondamentale che tale somma sia spesa non semplicemente per trovare ai giovani un lavoro qualsiasi, ma per sviluppare skill e “ponti strategici” che rendano più fluido e robusto il passaggio scuola-lavoro: è il momento di agire rapidamente, ma di farlo ragionando a lungo termine.

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