Le start up innovative e le idee che fanno crescere il Pil in Italia

I sistemi legacy e le relazioni con gli attuali fornitori sono tra i principali ostacoli alla digitalizzazione: i Cio dovrebbero dunque lavorare con le startup per creare differenziazione. Questi suggerimenti che arrivano da più fonti (da Gartner a McKinsey ai Cio stessi) vanno oltre quel processo ormai consolidato da parte delle multinazionali hi-tech di acquisire startup per portare a casa l’innovazione. La collaborazione fra startup e imprese potrebbe infatti anche contribuire, secondo Accenture, a una crescita significativa del Pil. Il tema è ambito di discussione da tempo anche all’interno degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.

Pubblicato il 17 Feb 2016

“Più di metà delle grandi imprese sta creando unità interne dedicate all’innovazione, invece di aspettare che l’innovazione arrivi dagli attuali fornitori It”, ha detto Peter Sondergaard, senior vice-president di Gartner, allo scorso Gartner Symposium 2015 di Barcellona (leggi anche l’articolo: Il Business diventa Algoritmico: il Cio non può controllarlo, ma può influenzarlo). Sondergaard ha insistito sulla necessità per i Cio di comprendere che le loro vecchie piattaforme It non sono ormai più adatte per le nuove iniziative digitali ed è dunque necessario costruirne di nuove con nuovi fornitori. Il suggerimento è disinvestire nelle piattaforme It non critiche (ricorrendo eventualmente a fruizioni as a service) e investire in piccole startup tecnologiche per creare una customer experience differenziata.
Qualche tempo fa anche il Cio di McKinsey, Mike Wright, aveva affermato: “I Cio stanno scoprendo che è difficile trovare soluzioni tecnologiche innovative da grandi fornitori tradizionali e devono cercare altrove”.

Figura 1 – Impatto della collaborazione fra startup e imprese – Fonte: Accenture

La collaborazione fra startup e imprese potrebbe inoltre risultare una manna anche per lo sviluppo economico. Secondo una recente indagine di Accenture, in collaborazione con G20 Young Entrepreneurs Alliance [1], la partnership fra imprese e startup potrebbe produrre a livello italiano una crescita di 35 miliardi di dollari (pari a 1,9% del Pil) e una crescita del 2,2% a livello mondiale. Il 76% delle grandi aziende italiane, sempre secondo l’indagine, si dichiara consapevole dei vantaggi derivanti da questa leva per digitalizzare il business che porterebbe a una crescita del fatturato (dal 7% al 16% nei prossimi 5 anni).

Stefano Mainetti, Ceo di Polihub

Si tratta però di capire come realizzare questa fruttuosa collaborazione partendo da una considerazione. Stefano Mainetti, Ceo di Polihub, intervenendo al Convegno dell’Osservatorio Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano dello scorso dicembre, ha chiarito che una startup è “la ricerca di un modello di business scalabile che si testa in modo agile sul mercato per raccoglierne metriche e realizzare poi cosa il mercato vuole: l’idea vale per l’1%, l’execution vale il 99%. E visto che ci sono anche troppe idee, serve metodo scientifico per identificare quelle destinate al successo, con una execution efficace”.

Open innovation: quali modelli di collaborazione

La parola chiave è open innovation, che richiede alle grandi imprese di modificare l’approccio, attualmente basato soprattutto su corporate venture e incubatori aziendali, verso una effettiva collaborazione congiunta con le startup. Ciò implica, secondo Accenture, uno spostamento dalla logica attuale, che punta su obiettivi predeterminati e idee di business, a un approccio più aperto e imprenditoriale, che evolva da accordi bilaterali a una collaborazione multilaterale per arrivare a un ecosistema dell’innovazione.

Figura 2 – Differenze culturali fra startup e grandi imprese – Fonte: Accenture

Attuare nuove modalità di collaborazione aperta è in ogni caso indispensabile, vista la crisi del modello tradizionale di innovazione basato su investimenti in R&D e talenti: “Le grandi multinazionali hanno già messo in atto da tempo l’open innovation per arrivare più rapidamente sul mercato”, ricorda Mainetti.

Il primo modello adottato è quello dell’outside-in che porta in azienda l’innovazione da fuori consentendo di arrivare più rapidamente sul mercato, continuando a fare quanto si sa fare meglio; è la via seguita storicamente da Apple che ha acquisito decine di startup e aziende innovative, principali responsabili dei più importanti salti qualitativi dell’azienda di Cupertino. Il percorso contrario è quello dell’inside-out: l’azienda ha all’interno progetti che da sola non è in grado di portare al mercato, li esternalizza e li sostiene. È il caso di Ibm verso la comunità opensource, a cui ha ceduto centinaia di licenze.

C’è infine un modo congiunto in cui due o più attori collaborano, come nel caso dell’accordo fra AmericanExpress e Foursquare, per praticare sconti ai clienti, creando nuove sinergie.

I modelli di stimolo e di supporto alle startup, analizzati da Polihub, sono sintetizzati da Mainetti.

  1. Il corporate venture, attraverso una società dedicata, consente all’azienda di finanziare la startup, entrando nell’equity, per poi acquisirla per incorporarla o fare un exit.
  2. Gli incubatori aziendali sono ambienti agili, capaci di valorizzare la ricerca per poi lanciare le nuove imprese sul mercato; importano innovazione generalmente attraverso call for ideas e acquisiscono quote delle startup. Il limite principale è però la loro chiusura ai competitor, spiega Mainetti ricordando che il 43% delle maggiori multinazionali, in tutti i settori, sta lanciando o ha già un corporate incubator.
  3. L’offerta gratuita (fino a quando hanno raggiunto un certo volume di affari) delle proprie piattaforme alle startup, che possono sviluppare il loro business, con crescite rapide anche in termini di nuovi posto di lavoro è una modalità di supporto più recente, proposta da grandi vendor Ict (Microsoft, Ibm, Sap..).
  4. Specifici programmi di scouting sono utili alle aziende per importare innovazione e alle startup per testare le loro soluzioni, facendo customer validation con partner industriali solidi.

I Cio italiani: quale approccio alle startup

Figura 3 – Finanziare l’It imparando dalle startup – Fonte: Gartner

Può essere indicativo del punto di vista dei Cio italiani un sondaggio realizzato in occasione della giornata conclusiva dell’Osservatorio del Politecnico di Milano.
Alla domanda “se l’open innovation fosse una farmacia cosa sarebbero le startup?”, il 27% ha risposto un farmaco salvavita, il 31% un antibiotico e il 28% un medicinale da banco; solo il 1% un palliativo e il 12% un farmaco omeopatico. La maggior parte dei Cio considera dunque le startup un medicinale vero, un componente essenziale per l’innovazione che va maneggiato con cura.
Le esperienze concrete, nonostante i vantaggi verificati da chi ha sperimentato una relazione con le startup, si contano però ancora sulle dita di una mano, come testimoniato dai CIO presenti al Convegno.
Un rapporto strutturato con le startup comporta infatti la creazione di una struttura organizzativa dedicata; altrimenti si perde tempo, come testimoniano alcuni startupper.

Gloria Gazzano, Cio di Snam

“Abbiamo strutturato il processo in due filoni out-in, attraverso il monitoraggio di tutto ciò che succede fuori dall’azienda per ottenere spunti innovativi, e in-out, cioè attraverso meccanismi di stimolazione della creatività dall’interno”, ha spiegato Gloria Gazzano, Cio di Snam in occasione del workshop della Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano dedicata all’innovazione tramite startup.

Pier Luca Ferrari, Head of Business Solutions di Snam

Si tratta di un meccanismo determinante per accelerare la scelta organizzativa che porterà la direzione Ict a diventare un’unità di business invece che di staff. “L’azienda esce dal proprio mercato regolato e sta cercando di offrire servizi e ricavi in zone fuori dal core”, ha sottolineato Pier Luca Ferrari, di Snam, Head of Business Solutions. Per attuare questi progetti, Snam è riuscita a selezionare per ora due da una base di partenza di quasi 100 realtà.

Carlo Bozzoli, Head of Global Information and Communication Technology di Enel

“Se dobbiamo cavalcare la marea digitale, l’innovazione è fondamentale di fronte a un modello di business che rischia di essere superato”, ha dichiarato Carlo Bozzoli, Head of Global Information and Communication Technology di Enel. L’azienda sta mettendo in atto una convinta strategia di open innovation accompagnata da una struttura organizzativa con un Chief Innovation Officer e un comitato di innovazione a cui concorrono le diverse funzioni aziendali: “L’obiettivo è analizzare quanto valore c’è fuori, facendo leva sull’innovazione, per cambiare pelle e superare l’idea che la direzione ricerche abbia il monopolio dell’innovazione”, dice ancora Bozzoli.

Piera Fasoli, Direttore sistemi informativi, Gruppo Hera

L’esigenza è ben presente anche in realtà dove ancora non sono state sviluppate esperienze concrete, come strumento per sopperire anche alla carenza di competenze per l’innovazione digitale. Piera Fasoli, Direttore sistemi informativi, Gruppo Hera, guardando alla digitalizzazione, pensa con preoccupazione alla disponibilità all’interno delle strutture aziendali delle competenze e dei talenti necessari per realizzarla: “Le startup come pure le università sono una fonte preziosa di idee e di competenze che difficilmente si trovano in natura nelle organizzazioni aziendali”, ha sostenuto, ipotizzando che dalla open innovation possa venire un contributo per superare lo skill gap.

Fabrizio Locchetta, Chief Technical Officer di A2A

Fabrizio Locchetta, Chief Technical Officer di A2A, ricordando che la sua azienda ha posto l’innovazione digitale fra i pilastri strategici, avverte: “Va superato il luogo comune sulle competenze innate dei nativi digitali. Spesso alla velocità d’uso, non corrisponde una conoscenza approfondita da parte dei nostri ragazzi a differenza di quanto avviene in altri Paesi. È dunque indispensabile individuare le competenze anche nelle startup che, in ambiti come le app, sono in grado di insegnarci molto”. E aggiunge che dalle startup si deve imparare anche un nuovo modo di operare: “Se la priorità è la velocità, si deve accettare la possibilità di poter sbagliare”.

Milo Gusmeroli, Vicedirettore Generale, Banca Popolare di Sondrio

Anche Milo Gusmeroli, Vicedirettore Generale, Banca Popolare di Sondrio, insiste sulla necessità di dotarsi di prodotti digitali e apprendere, anche con l’aiuto delle startup, i modelli digitali che rispondono a nuovi paradigmi. Precisa però che questi si devono innestare sulle realizzazioni tradizionali senza creare quella dualità organizzativa che potrebbe conseguire da un’adesione pedissequa al modello bi-modale suggerito da Gartner. “Servono competenze vecchie e nuove e la capacità di progettare tipica del digitale per creare prodotti digitali, diventando anche noi startup”, ha concluso.

Anche in Italia quindi si può parlare di collaborazione tra startup e aziende tradizionali. Ne è un esempio, tutto nostrano, l’Osservatorio Startup Intelligence del Politecnico di Milano che mette a disposizione da un paio di anni una piattaforma di lavoro per favorire la concreta contaminazione e collaborazione tra l’ecosistema startup e queste imprese aperte e curiose.


1. L’Alliance raggruppa le associazioni di giovani imprenditori dei Paesi del G20, ha focalizzato l’attenzione sul tema dell’Open. La ricerca è stata condotta su 20 Paesi compresa l’Italia, con interviste on line a 1020 imprenditori e 1.020 dirigenti di grandi aziende e interviste approfondite a 20 dirigenti di aziende e istituzioni. Torna su


Imparare dalle startup, i suggerimenti di Gartner

Come ricorda Gartner ai Cio, non basta comprare una startup per acquisire le competenze e le tecnologie che servono, bisogna acquisirne la mentalità e il comportamento per poter guardare anche alla propria organizzazione come se fosse a una startup

I Cio per finanziare i progetti l’It, dovrebbero seguire suggerimenti di Barbara Gomolski, Managing Vice President, Cio and Executive Leadership Research, Gartner, basati sui modelli seguiti dalle startup:

  1. le startup “vendono” prima di tutto la vision, poi il team e, infine, presentano il business plan
  2. le startup non lavorano su cicli di pianificazione fissi; viene “allestito” il finaziamento; esse sono reattive ai cambiamenti delle condizioni del mercato;
  3. hanno modelli di organizzazione creativi; si muovono rapidamente; hanno una buona capacità di esecuzione;
  4. il loro focus è sulle potenzialità di business.

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