Connected Community – C’è un modo diverso di fare impresa e Pa in una società digitale integrata?

Come trasformare le nostre aziende ancora strutturate su vecchi modelli organizzativi in aziende “liquide”, capaci quindi di rimodellarsi sulla base di diverse variabili, inserite in una connected community fatta di ecosistemi interni (dai dipendenti, ai clienti, ai partner), ma soprattutto esterni (associazioni, startup, centri di ricerca, Pa),
che consenta loro di vivere da protagonisti la rivoluzione digitale? Se ne è discusso nella Tavola Rotonda tenutasi a Milano nell’ambito del progetto Finaki-ZeroUno-NetConsulting.

Pubblicato il 27 Gen 2015

Una Community nella quale si connettono, con gradi e livelli diversi di coinvolgimento, gli stakeholder tradizionali (dal top management ai clienti), ma anche vendor e associazioni di categoria o soggetti nuovi, come le startup o il mondo della ricerca e delle università (oggi spesso ai margini del mondo aziendale): è il tema sul quale si sono confrontati Cio e rappresentanti dell’offerta nella Tavola Rotonda, coordinata dal Direttore di ZeroUno, Stefano Uberti Foppa, e da Annamaria Di Ruscio, Partner e Direttore Generale di NetConsulting, svoltasi recentemente a Milano nell’ambito del Progetto Finaki-ZeroUno-NetConsulting.

Daniele Rizzo, Presidente del Comitato di Programma Finaki Incontri Ict 2015 e Chief Information & Bpo Europe di Autogrill

“Affrontare la realtà dalla prospettiva di una community di questo tipo rappresenta l’antidoto al problema della frammentazione del tessuto delle imprese del nostro paese; non solo, è importante ragionare con questa prospettiva anche all’interno delle nostre organizzazioni perché, anche al nostro interno, non siamo abituati a lavorare in una logica collaborativa”, afferma Daniele Rizzo, Presidente del Comitato di Programma Finaki Incontri Ict 2015 e Chief Information & Bpo Europe di Autogrill, accogliendo i colleghi nella location che ci ospita, l’Autogrill Villoresi, alle porte di Milano, esempio esso stesso di collaborazione tra competenze diverse unite nella realizzazione di una struttura architettonica avveniristica ed ecocompatibile.

Giorgio Bongiorno, Delegato Finaki in Italia

“Esempi veri di community non ne abbiamo molti – interviene Giorgio Bongiorno, Delegato Finaki in Italia – perché, nonostante si parli molto di contaminazione (di mercati e di ruoli), di collaborazione e di condivisione, nella realizzazione concreta manca spesso ciò che contraddistingue una vera community ossia la condivisione di valori comuni. Rivoluzione digitale non significa anarchia: quello che dobbiamo fare è identificare quei valori da condividere, trasversali ai settori, alle peculiarità tecnologiche e alle specificità aziendali, nei quali riconoscerci come community”; è questa condivisione di valori che consente di trasformare comportamenti individuali spontaneistici, balzi in avanti incontrollati, scelte avulse dal contesto, tipici di una “rivoluzione”, in un percorso costruttivo e di cambiamento “gestito”.

Stefano Uberti Foppa, Direttore di ZeroUno

E si ricollega proprio ad alcuni concetti base da condividere Uberti Foppa: “Il nostro punto di partenza è uno scenario di complessità competitiva che è oggettivamente in aumento a causa di tanti fattori (dalla velocità e contaminazione dei mercati, alla necessità di contenimento dei costi, alle problematiche di security ecc.), ma il cui elemento caratterizzante è l’imperativo di essere in grado, come imprese, di elaborare un’offerta di prodotti e servizi che sappia cogliere l’opportunità del business digitale”; l’It deve quindi permeare ogni area aziendale, ogni attività, soprattutto quelle dove si pensano i prodotti, le soluzioni e i servizi da proporre al mercato. Ma quali sono le “armi” in possesso dell’It per gettarsi profittevolmente in questa arena? “Negli ultimi due anni – prosegue il direttore di ZeroUno – abbiamo visto emergere le forze di riferimento che consentono ai sistemi informativi di supportare l’azienda nella realizzazione di una capacità competitiva a base digitale: flessibilizzazione attraverso il cloud e la diffusione di ‘intelligenza’ nei sistemi, il ‘software defined everything’; gestione della complessità attraverso nuove capacità analitiche che consentono di mettere a frutto l’enorme patrimonio informativo oggi a disposizione delle aziende grazie ai social, ai big data, allo IoT ecc.; portare l’azienda in tasca degli utenti in modo da cogliere il mobile business moment e questo significa capire qual è l’esigenza del cliente in uno specifico momento, quindi ancora analytics, capacità di clusterizzazioni dei clienti ecc.”

Se queste sono le capability che abilitano la trasformazione del business da tradizionale a digitale, è evidente che un cambiamento di questo tipo ha il suo baricentro non tanto nella tecnologia, ma nella capacità di revisione organizzativa dei sistemi informativi e dell’azienda nel suo insieme: “Flessibilizzazione, automazione, intelligenza nei sistemi non approdano a nulla se non sono inseriti in un disegno organizzativo di contaminazione con la parte business dell’azienda: i sistemi informativi devono permeare tutta l’impresa ed essere là dove si genera l’opportunità di business”, afferma Uberti Foppa.

Il significato di essere connected community

Annamaria Di Ruscio, Partner e Direttore Generale di NetConsulting

“Digital connected community. Bisogna analizzare nel dettaglio i tre termini per essere sicuri che diamo loro lo stesso significato”, esordisce Annamaria Di Ruscio, Partner e Direttore Generale di NetConsulting, che prosegue: “Il termine community deve sostanziarsi con, da un lato, il riconoscersi attorno a valori e identità comuni e, dall’altro, creare intelligenza collettiva, che è poi il suo vero valore. Connected significa esserlo non solo all’interno della propria azienda, ma una community connessa che comprende le linee di business e anche clienti e fornitori, perché tutti questi attori fanno parte in qualche modo del perimetro interno dell’azienda, ma all’esterno, con quella ‘filiera lunga’ che dobbiamo costruire e comprende startup, centri di ricerca, associazioni, la stessa pubblica amministrazione. Infine digital, tema che non può essere affrontato solo dal punto di vista infrastrutturale, dell’architettura abilitante, ma deve essere visto dalla prospettiva business, consentendo di: essere più veloci, stabilire forti relazioni con il cliente e offrire la migliore esperienza utente possibile per i prodotti e servizi offerti”, tutto ciò, prosegue Di Ruscio, implica un grande impegno per poter compiere, da parte del Cio e dei sistemi informativi, il vero salto di qualità: “Passare nella stanza dei bottoni per riuscire a concepire prodotti e servizi di nuova generazione”.

Fabio Pacelli, Direttore Gestione Servizi al Passeggero di Gesac

La parola passa poi a Fabio Pacelli, Direttore Gestione Servizi al Passeggero di Gesac – Aeroporto Internazionale di Napoli, passato dal ruolo di responsabile dei sistemi informativi a una responsabilità di business strategica. Primo aeroporto italiano ad essere privatizzato, nel 1997 l’Aeroporto di Napoli, focalizzato sul traffico nazionale, viene acquisito dalla British Airports Authority che, conscia che l’Alta Velocità ferroviaria avrebbe avuto un forte impatto negativo sul traffico aereo nazionale, decide di trasformarlo in aeroporto internazionale. Di questa trasformazione l’It è stato un attore primario e lo è stato perché capace di mettere in discussione il proprio ruolo: “Per sopravvivere in questo mercato globale e in continuo cambiamento, il Cio stesso deve essere predisposto al cambiamento. Uno dei compiti dei Cio è proprio quello di fare accettare le sfide al top management: utilizzare l’innovazione come leva di cambiamento e portare proposte ‘folli’, che cambiano il business, ma ben inserite nella vision condivisa dagli stakeholder aziendali. Questa impostazione ha portato il nostro aeroporto, che nel frattempo è tornato di proprietà italiana, ad essere il 1° per marginalità nel nostro paese”, afferma Pacelli, ricordando poi come siano 5 i fattori (Vision, Skill, Motivation, Resource, Action Plan) che rendono possibile il cambiamento e che la mancanza anche di uno solo di essi rende difficile il raggiungimento dell’obiettivo (vedi figura).

Cambio di mindset

Demetrio Migliorati, Head of Enterprise Digital Organization di Banca Mediolanum

Il problema non riguarda però solo il Cio e i sistemi informativi: trasformarsi in connected community significa che il cambiamento deve essere pervasivo in tutta l’azienda perché non si può parlare di community che travalica i confini aziendali se proprio all’interno dell’azienda “abbiamo pochissima cultura di coopetition”, come afferma Demetrio Migliorati, Head of Enterprise Digital Organization di Banca Mediolanum, che precisa: “Vedere tra i dipartimenti aziendali un rapporto di collaborazione-competizione è rarissimo; la nostra cultura aziendale è ancora tayloristica, terribilmente command & control, con posizioni costruite nel tempo basate sulla simmetria informativa e la non condivisione delle informazioni. La prima cosa che dobbiamo fare è demolire questo approccio, ma non è un processo facile, bisogna attivare un meccanismo di collaborazione diffusa e per farlo occorre educare le persone a un diverso modo di lavorare. Perché se non c’è libera condivisione di conoscenza, la tecnologia non serve”.

Roberto Fontana, Marketing Director di Qlik

La stessa questione viene analizzata da Roberto Fontana, Marketing Director di Qlik, da una diversa prospettiva partendo da un dato emerso da uno studio Gartner: “Nell’81% delle aziende intervistate nell’ultimo anno dalla società di analisi esiste un Chief Marketing Technologist ed è questa figura che gestisce il budget per le iniziative digitali. Sono persone che non riportano quasi mai all’It, ma la collaborazione tra queste figure e l’It è fondamentale perché è l’It ad avere una visione analitica multicanale e può, quindi, abilitare analisi che consentono di ridefinire la strategia in real time sulla base di determinate azioni, risultati, eventi, contesti. Abbandono dei processi monolitici e agilità: è questo che l’azienda chiede”.

Paolo Cavalsassi, Direttore Vendite di Microsoft

“Quello che noi persone dell’It dobbiamo fare – interviene Paolo Cavalsassi, Direttore Vendite di Microsoft – è mettere l’utente al centro. Come abbiamo detto è in atto un fortissimo cambiamento che comporta un nuovo modo di lavorare e in questo c’è senz’altro un aspetto culturale da affrontare, ma quello che noi dell’It, anche come vendor, dobbiamo fare è studiare le diverse esperienze utente, capire quali sono questi diversi modi di lavorare e facilitare il processo di cambiamento; facendo loro vivere un’esperienza utente differente, basata sulla collaborazione, della quale possano percepire tutti i vantaggi”.

Brunello Giordano, Director Partners and Channel di Ca Technologies

Chief Innovation Officer: come gestire il cambiamento

Se il vendor è un attore di questa connected community, come deve relazionarsi con il Cio e le altre figure aziendali in questa logica di collaborazione? “Il problema – spiega Brunello Giordano, Director Partners and Channel di Ca Technologies – è che il Cio, che dovrebbe essere il mio principale referente, prima si deve occupare di far funzionare l’esistente e poi si può dedicare all’innovazione. Quella del Chief Innovation Officer sarebbe una figura importante da identificare perché se devo parlare di innovazione oggi in azienda ho diversi interlocutori a seconda che io parli di security, di sviluppo di nuove applicazioni o altro; è difficile trovare un interlocutore unico con il quale affrontare la tematica dell’innovazione nel suo insieme, al di là delle specifiche soluzioni che potrei proporre”.

Gianluca Giovannetti, Group Cio and Business Process Director di Amadori

Secondo Gianluca Giovannetti, Group Cio and Business Process Director di Amadori, in realtà è proprio questo il ruolo del Cio che “è chiamato a fare quello che il momento storico gli chiede di fare, parlare di Digital Officer o Innovation Officer è un falso problema”, e torna sul tema del cambiamento che deve permeare tutta l’azienda: “Abbiamo fatto un assessment in azienda per capire quanto questa famosa rivoluzione digitale fosse realmente entrata nelle case dei nostri dipendenti, quanto fosse vissuta in prima persona. Il risultato è stato bassissimo. Questo è un periodo veramente particolare per le imprese: non si può prescindere dal digitale, ma le aziende sono fatte da persone vecchie che ‘pensano’ prima di tutto analogico e questa è una realtà con la quale bisogna convivere; in secondo luogo, parliamo di collaborazione, ma a noi hanno insegnato che in azienda non si doveva condividere un bel nulla!”, qualsiasi processo di cambiamento deve quindi tenere ben presenti queste due problematiche, che poi confluiscono in una sola ed è il cambiamento culturale, “ma questo – prosegue Giovannetti – si conquista passo dopo passo: in Amadori, per esempio, stiamo introducendo processi di reverse mentoring in modo che la contaminazione con i nuovi assunti aiuti il personale più anziano ad acquisire nuovi modi di lavorare e di relazionarsi”.

Paolo Sassi, Group It Director di Artsana Group

Quella della reale penetrazione della rivoluzione digitale all’interno delle imprese è un tema affrontato anche da Paolo Sassi, Group It Director di Artsana Group: “In azienda spesso, anche nel top management, si parla di una determinata applicazione o tecnologia, ma poi non si è capaci di usarla. Nelle aziende ci sono sempre alti e bassi, momenti in cui le imprese sono più o meno vicine alla tecnologia e la realtà di oggi è che abbiamo una forza lavoro non allineata con gli strumenti che il mondo offre, e che i sistemi informativi mettono a disposizione. È in questa sorta di intercapedine che dobbiamo lavorare per scardinare il vecchio modello”.

Aldo Chiaradia, Cio di Furla

L’owner o gli owner della digital transformation?

Davide Pannuto, Social & Mobile Category Leader di Ibm

Il dibattito prosegue acceso, Aldo Chiaradia, Cio di Furla, rileva la difficoltà a trovare consulenti adeguati a formare le persone al nuovo modo di lavorare, e Davide Pannuto, Social & Mobile Category Leader di Ibm, ricorda quanto sia importante l’ingresso di persone nuove in azienda: “Giovani talenti che vivono con queste tecnologie e ci insegnano a come utilizzarle, ma un conto è condividere le proprie fotografie sui social, un altro è farlo con un documento tecnico. È un cambiamento che deve essere gestito, ma chi è il titolare della digital transformation? Deve tener conto delle tecnologie abilitanti, saperne di security, capire quali sono le competenze necessarie, sapere formare, usare i social e capirne il linguaggio… Adottare una strategia digital significa adottare un nuovo livello organizzativo sopra l’organizzazione esistente e l’owner di questa trasformazione non può essere una sola persona, ma un insieme di soggetti e tra questi ci deve essere sicuramente anche il Cio”.

Roberto Mussi, Sales Manager Large Enterprise di Dell

Roberto Mussi, Sales Manager Large Enterprise di Dell, ripercorrendo la storia della propria azienda che, entrata nel mercato It con un modello di business completamente nuovo per l’epoca, quattro anni fa ha dato il via a un processo di revisione del proprio approccio che l’ha portata a una radicale trasformazione: “L’insegnamento che possiamo trarre dalla nostra stessa esperienza è che non possiamo rimanere fermi a quello che ci ha portato al successo cinque anni prima. In questo cambiamento la visione è fondamentale, devo averla e portarla avanti. E nell’attuazione di questa visione il nostro ruolo di vendor può essere importante, purché noi stessi e i nostri interlocutori ci poniamo correttamente: noi non dobbiamo entrare nel perverso meccanismo di dover ‘vender macchine’ e il Cio deve abbandonare la logica del ‘comprare al prezzo migliore’. Il nostro ruolo è quello di aiutare il Cio a sfruttare al meglio, dal punto di vista del business, le innovazioni tecnologiche che possiamo portare in azienda”.

Fabrizio Virtuani, Amministratore Delegato di PosteMobile

Fabrizio Virtuani, Amministratore Delegato di PosteMobile, che non avendo potuto partecipare alla Tavola Rotonda ci ha fatto successivamente avere il suo parere, conferma indirettamente questa dichiarazione: “Quello che noi cerchiamo sono vendor che siano sempre più dei partner, che capiscano il nostro modello di business e ci aiutino nel processo di digitalizzazione”. Ma soprattutto aggiunge una considerazione che sostanzia ulteriormente il concetto di connected community: “Nei nuovi processi digitali è importante non tanto la technicality, quanto la conoscenza del processo end to end. Vedo ancora troppo spesso vendor, anche avanzati come sono per esempio quelli di smartphone, ragionare in una logica solo di prodotto e quindi immettere sul mercato prodotti che hanno determinate feature come, sempre per proseguire con l’esempio, l’Nfc senza però conoscerne il processo di utilizzo. Un’azienda come Poste, ma anche una banca ovviamente, conosce benissimo il processo di pagamento, con tutte le variabili possibili sia come modalità sia come canali che possono essere utilizzati; se il produttore immette sul mercato uno smartphone con un’app per l’Nfc chiusa, senza Api che la aprano al mondo esterno, obbliga le società di servizi, come Poste o le banche, a effettuare ulteriori attività di sviluppo software per poter attivare il servizio. Quello che chiedo ai vendor, quindi, quando sviluppano un prodotto è di ascoltare i fornitori del servizio, coloro che realmente conoscono il processo”. E Cavalsassi aggiunge un suggerimento: “Ci sono aziende utenti che ci coinvolgono in brainstorming dove sono presenti più vendor in contemporanea; è molto stimolante, ci si confronta sulle diverse esigenze: questo vuol dire essere community”.

Conclude la giornata Di Ruscio che riassume gli elementi salienti del dibattito:

  1. non dimentichiamo che tutti siamo clienti, fornitori, consumatori, utenti, abitanti e famiglie; ciascuno di noi vive e interpreta più ruoli; il nostro senso di appartenenza alla community deve portarci a guardare noi stessi con la specificità del ruolo che interpretiamo, ma avendo ben presente la molteplicità dei ruoli che assumiamo;
  2. c’è bisogno di una disruption organizzativa che è interna, ma soprattutto è cross, sia a livello interno (coopetition tra i diversi dipartimenti-funzioni aziendali, i fornitori, i clienti ecc.) sia esterna (la filiera lunga che va dalle startup alle associazioni). Questo è lo sforzo: la disruption organizzativa deve essere gestita a livello cross, quindi basta con il modello tayloristico;
  3. cambio di mindset, e qui è fondamentale il tema della formazione (che negli ultimi anni abbiamo brutalmente accantonato): sì ai nativi digitali, ma attenzione a non perdere esperienze e competenze; è necessaria una commistione tra il vecchio e il nuovo. E questo discorso implica quello di una cross fertilization, anche di genere: la ricchezza della differenza è un valore;
  4. avere una vision, avere chiaro in mente dove vogliamo andare, sapere quali sono i benefeci e ritorni che vogliamo ottenere;
  5. infine il tema dell’urgenza, perché in ogni periodo storico o fase economica ci sono fattori esterni che inseriscono accelerazioni e, anche se è inevitabile dover fronteggiare la resistenza del sistema esistente, in queste accelerazioni si celano grandi opportunità.

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