Cloud ibrido, il percorso di adozione delle aziende in Italia

Alcune obtorto collo, altre profondamente convinte, le aziende italiane si stanno orientando verso il cloud, soprattutto per quei servizi che rappresentano delle commodity e la cui gestione in house non aggiunge alcun valore, mentre la fruizione as a service comporta anche una riduzione dei costi. Ma non può essere l’unico approccio. Se l’hybrid cloud è una scelta per abilitare l’innovazione in azienda non si può ragionare solo in termini di costi e gli investimenti sono necessari. Se ne è discusso in due Executive Cocktail organizzati da ZeroUno in partnership con Dedagroup Ict Network, VMware ed Emc, a Rimini e a Vicenza

Pubblicato il 03 Dic 2015

Articolato sistema di fornitori e offerte, dove il Cio è chiamato a essere prima di tutto orchestratore di servizi in-house e pubblici per disegnare un’infra­struttura agile e borderless, che connetta dipendenti, clienti, partner e dispositivi: è l’hybrid cloud, modello che si sta sempre più disegnando come quello più idoneo a supportare la digital transformation del business. Ma qual è il livello di adozione? Come costruire una road map che porti innovazione salvaguardando gli investimenti fatti? È questo il tema su cui ci si è focalizzati nel corso di due Executive Cocktail che ZeroUno ha organizzato a Rimini e a Vicenza, in partnership con Dedagroup Ict Network, VMware ed Emc.

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Coordinate da Patrizia Fabbri, Caporedattore di ZeroUno, le due Tavole Rotonde hanno visto confrontarsi le aziende del territorio, con due analisti Stefano Mainetti e Nicola Restifo, rispettivamente Codirettore Scientifico e Ricercatore Senior dell'Osservatorio Cloud & Ict as a Service School of Management del Politecnico di Milano, insieme ai manger dei tre vendor.

Stefano Mainetti, Codirettore Scientifico dell'Osservatorio Cloud & Ict as a Service School of Management del Politecnico di Milano

Application economy, innovazione continua, contaminazione dei mercati, shared economy, social business, mobility, Internet of Things: sono queste le parole chiave della trasformazione che sta investendo tutti noi come persone e come aziende. È un momento di forte discontinuità che vede impatti dirompenti sulle aziende, sul modo stesso di fare business e il cui leitmotiv è la digitalizzazione della società, delle aziende e delle persone. Di conseguenza l’impatto sul dipartimento It è altrettanto dirompente e lo obbliga a rivedere il proprio modello evolutivo in un’ottica che, nella ormai nota definizione di Gartner, deve essere bimodale: da un lato garantire l’evoluzione infrastrutturale verso criteri di flessibilità, apertura, variabilità, tecnologie di più facile gestione; dall’altra avere la capacità di portare innovazione là dove si genera il business, con una rapidità nello sviluppo di soluzioni, prodotti e servizi inimmaginabile con le tradizionali metodologie e la rigidità dei sistemi legacy.

Hybrid cloud: il percorso delle aziende italiane

Nicola Restifo, Ricercatore Senior dell'Osservatorio Cloud & Ict as a Service School of Management del Politecnico di Milano

“Non bisogna mai dimenticare che, come dipartimento It, abbiamo una grande responsabilità all’interno delle nostre imprese – ha subito sottolineato Mainetti nell’edizione romagnola dei due eventi – perché siamo noi a dover traghettare l’azienda in questa trasformazione e dobbiamo farlo bilanciando le esigenze trasformative con quelle di governance, di sicurezza, di tutela degli investimenti fatti. Ma dobbiamo farlo dominando gli elementi tecnologici, senza che questi diventino un freno”. Passando ai dati, Mainetti e, nell’edizione veneta, Restifo sottolineano come l’utilizzo del cloud stia crescendo nelle aziende italiane (complessivamente dai 1.210 milioni di euro nel 2014 ai 1.510 milioni stimati per il 2015, con una crescita complessiva del 25%). “Ma il dato più interessante – evidenziano i due analisti – è rappresentato dalla crescita di quella che definiamo Cloud Enabling Infrastructure, ossia tutti quegli investimenti in infrastrutture abilitanti il cloud che passano dagli 870 milioni del 2014 ai 1050 del 2015 e rappresentano più dei due terzi del mercato cloud in Italia. Un altro elemento interessante che emerge dalla ricerca svolta dall’Osservatorio Cloud & Ict as a service è che se il cloud è un trend che vede le grandi imprese come principali protagoniste, il ricorso alla fruizione di infrastrutture o applicazioni as a service sta sempre più interessando anche le Pmi: per quanto riguarda il public cloud si registra una crescita del 70% nel 2015 rispetto all’anno precedente; stiamo parlando di una quota minoritaria (46 milioni di euro su 460 nel 2015), ma rimane una tendenza interessante”.

Figura 1 – Come rendere le infrastrutture più agili. Fonte: Osservatorio Cloud & Ict as a Service School of Management del Politecnico di Milano, Campione 2015: 79 LE

Ma come delineare un percorso a medio-lungo termine per integrare data center aziendale e cloud pubblico? Come aggirare i vincoli imposti dalle infrastrutture esistenti? Come costruire un ambiente ibrido in grado di supportare i processi di digitalizzazione dell’azienda? Come impedire che l’accesso indiscriminato delle Lob a servizi cloud pubblici crei “nuovi silos” difficilmente integrabili nell’It aziendale? Sono queste le domande che disturbano i sonni dei responsabili It. “Sono domande fondamentali – è la risposta di Mainetti – perché il rischio è adottare questo modello in modo sprovveduto, aggiungendo complessità al sistema informativo. Ogni azienda è diversa e ogni azienda ha un proprio cloud journey, ma l’elemento comune è rendere il proprio sistema informativo adatto ad abilitare questo modello”. Dalla ricerca condotta dall’Osservatorio abbiamo una prima fotografia di come si stanno comportando le aziende italiane (figura 1): “Da un lato ci sono aziende che sono passate dai server tradizionali alla virtualizzazione e consolidamento, dove la spinta principale è l’efficientamento e la riduzione del provisioning di nuovi server: dalla nostra rilevazione risulta che il 60% delle aziende è in questa fase. Il vero salto si fa poi con l’automazione e la standardizzazione, con il Software-Defined Data Center dove le risorse fisiche sono gestite da uno strato che disaccoppia le applicazioni dalla risorsa fisica; qui si riduce il numero di aziende (25%) anche perché è necessario un forte cambiamento nelle competenze. Infine abbiamo chi sta già sperimentando l’utilizzo di public IaaS per determinate attività. Il vero punto di discontinuità – specifica l’analista – è quando si associa l’utilizzo di public IaaS al sistema informativo interno, con l’hypervisor gestisce in maniera fluida le risorse interne ed esterne: è il sistema informativo ibrido. È uno step che coinvolge ancora un numero esiguo di imprese, ma quel 5% di aziende che si trovano in questa situazione evidenzia un trend, ed è un trend destinato a crescere”.

Figura 2 – Nuove competenze nella Direzione ICT. Fonte: Osservatorio Cloud & Ict as a Service – School of Management del Politecnico di Milano

Il Cloud journey è comunque un percorso che non si può percorrere rimanendo indenni: sono necessari investimenti sia per rendere l’infrastruttura “cloud enabling” sia in termini di competenze (figura 2): “È indispensabile – chiarisce Mainetti – un forte cambiamento delle competenze interne. Per accompagnare l’azienda nel processo di trasformazione, alcuni skill di livello più basso (come quelli sistemistici) vengono eliminati mentre crescono, devono crescere, quelli di livello più alto: dal demand management al service management, dalla capacità di gestire in modo diverso i fornitori, a un diverso approccio al change management dove l’eccessiva personalizzazione che ha caratterizzato gli approcci passati deve lasciare il passo alla standardizzazione. Ma soprattutto cambia il modello di governance, bisogna avere una visione architetturale dell’impresa: è qui che sale il valore dell’It”.

Dalla teoria alla pratica

Bernardo Palandrani, Channel Manager di Emc Italia

“Siamo invasi dai dati, ma il software è quello che ci salverà”, afferma Bernardo Palandrani, Channel Manager di Emc Italia, ricordando questa application economy nella quale siamo immersi e facendo l’esempio della stessa Emc che, conosciuta per l’infrastruttura hardware, in realtà realizza il 40% del proprio fatturato nel software. Sul software come differenziante strategico e sul Software-Defined Data Center come architettura abilitante la digital transformation si sofferma anche Matteo Uva Channel Manager di VMware Italia che ricorda le tre caratteristiche sostanziali dell’It oggi: “Deve essere un It istantaneo dove con un click si porta in produzione un servizio infrastrutturale o applicativo; il più possibile fluido, agile, in grado di adattarsi il più rapidamente possibile al mondo liquido, digitale; un It dove sia possibile portare un’applicazione dentro e fuori il data center con estrema rapidità e in sicurezza”.

“Il cloud – ricorda poi Palandrani – consente di cogliere le opportunità dell’application economy perché offre la possibilità di accedere a strumenti a basso costo prima irraggiungibili per molte aziende e di scalare facilmente le risorse in base alle esigenze: un esempio per tutti è il cambiamento che si è avuto nello sviluppo applicativo dove i tempi si sono più che dimezzati, a tutto vantaggio della competitività aziendale”.

Massimo Moles, Partner Sales Manager di Emc Italia

“Ma attenzione – gli fa eco Massimo Moles, Partner Sales Manager di Emc Italia – perché nessuna azienda parte da zero. Tutte devono fare i conti con un’infrastruttura esistente, con investimenti già fatti, competenze interne e quindi il percorso che il dipartimento intraprende deve consentire di tutelare tutto ciò”. E per fare questo Emc parla di Piattaforma 2.5 che sta a metà strada tra la tradizionale piattaforma client-server e la cosiddetta Terza Piattaforma (Internet, mobile, cloud ecc.) per consentire alle aziende di coniugare e armonizzare il processo trasformativo con la propria realtà aziendale: “Abbiamo quindi suddiviso i clienti in tre categorie – spiegano i due manager – dove nella prima abbiamo le aziende che necessitano del massimo del supporto, conoscono il loro obiettivo ma non sanno come muoversi, quali passi intraprendere; nel secondo gruppo ci sono invece i clienti motivati, che hanno già avuto esperienze cloud, ma necessitano di un supporto nell’implementazione del modello su più ampia scala; la terza categoria è quella che definiamo ‘cloud ready’, e in questo caso siamo in grado di sviluppare e implementare un progetto hybrid cloud in soli 28 giorni”.

Paolo Angelini, Direttore della business unit Cast, Dedagroup Ict Network

Soprattutto per il primo gruppo, il supporto del partner adatto è fondamentale ed Emc sottolinea la partnership che la lega a Dedagroup proprio per la capacità dell’azienda italiana di supportare il processo di trasformazione in tutte le sue fasi.

Figura 3 – Modelli per il Cloud. Fonte Dedagroup Ict Network

“Se andiamo a segmentare il mondo delle soluzioni applicative (figura 3) – interviene Paolo Angelini, Direttore della business unit Cast (Cloud, Applicativi, Servizi e Tecnologia) Dedagroup Ict Network – vediamo che il percorso è fatto di livelli crescenti di adozione di tecnologie standard, quelle che abbiamo definito infrastrutture abilitanti, ma anche di delega: c’è quindi un elemento tecnologico fondamentale, ma anche un elemento non meno importante di delega, di relazione con un soggetto con il quale devo sottoscrivere clausole contrattuali, ma anche instaurare una relazione di fiducia. E da questo punto di vista sviluppare una relazione con un soggetto nazionale, e che ha anche una presenza internazionale, come Dedagroup, offre sicuramente maggiori garanzie in termini di comprensione del contesto nel quale operano le aziende, delle loro esigenze ecc.”.

Giorgio Pianesani, Direttore Vendite Pmi Divisione Cast, Dedagroup Ict Network

“Fino a qualche anno fa – sostanzia poi Giorgio Pianesani, Direttore Vendite Pmi Divisione Cast, Dedagroup Ict Network – ci focalizzavamo sulla realizzazione di progetti che, seppur di altissima qualità, erano dei silos. Il modello emergente oggi, che come Dedagroup supportiamo, è quello di una integrazione sempre più stretta tra le tecnologie e le esigenze applicative del business”. La divisione Cast di Dedagroup Ict Network, spiegano i due manager dell’azienda, è nata proprio per occuparsi di questo: “Ossia delle infrastrutture abilitanti a tutti i livelli, i vari percorsi verso la trasformazione dell’It e stiamo passando dalla realizzazione di progetti puntuali al concetto di servizi gestiti, che implica un primo processo di delega. Questo approccio rappresenta un passaggio importante verso il cloud dove il processo di delega è maggiore e si passa a un modello sempre più spinto di fruizione dell’It come servizio”.

La prospettiva degli utenti

Matteo Da Soghe, Ict Manager di Asa

Sia a Rimini sia a Vicenza, i responsabili It delle varie aziende presenti hanno sollevato l’annoso problema della connettività: difficile pensare di poter fruire di servizi cloud quando l’azienda è raggiunta a malapena dall’Adsl! Ma Matteo Da Soghe, Ict Manager di Asa (azienda specializzata nella produzione di apparati per laserterapia e magnetoterapia), solleva anche il problema della connessione per chi lavora in mobilità in aree non raggiunte da connessioni veloci: è chiaro che ci sono problematiche di sincronizzazione online-offline delle applicazioni che devono essere correttamente affrontate fin dalla loro progettazione.

Luca Faccenda, Ict Manager di Baltur

Alcune delle aziende presenti nei due eventi hanno illustrato il proprio posizionamento rispetto al cloud journey e ne risultata una fotografia che corrisponde al campione della ricerca dell’Osservatorio, con aziende che stanno sperimentando o hanno sperimentato alcuni servizi cloud, ma pochissime che hanno completamente sposato questo modello, seppur nella sua accezione ibrida: “Recentemente abbiamo fatto un bel passo avanti con il cambio del sistema informativo e stiamo valutando il cloud per le applicazioni office e posta elettronica che, sia per sicurezza sia per fruibilità, non ha più senso mantenere all’interno dell’azienda. Con Dedagroup stiamo poi affrontando un progetto di disaster recovery, in modo da implementare questo servizio a breve termine; anche in questo caso non ha senso sviluppare il progetto internamente, bisogna affidarsi a chi fa queste cose di mestiere e ha l’infrastruttura adeguata”, ha precisato Luca Faccenda, Ict Manager di Baltur.

Morris Baratti, Responsabile Sistemi Informativi di Interfashion

È una scelta decisa verso il cloud quella di Interfashion, come ha spiegato Morris Baratti, Responsabile Sistemi Informativi dell’azienda: “Nel retail il discorso cloud è fondamentale e oggi parlare di business significa parlare di digitale. I due concetti sono strettamente connessi. Inoltre, le persone che prima in azienda si occupavo solo di ‘tenere acceso’ il sistema fanno un lavoro molto più interessante”.

Giuliano Franceschi, Responsabile Datacenter di Lepida

E c’è chi, come Lepida, la società in house della Regione Emilia Romagna che, dopo l’impegnativo investimento per implementare una rete ad alta velocità in grado di raggiungere quasi tutte le amministrazioni della regione, si prefigge ora un altro obiettivo, che oltretutto rientra perfettamente nelle indicazioni di ottimizzazione per la Pubblica Amministrazione che vengono da più parti: “Se questo investimento servisse solo per permettere ai dipendenti della PA di navigare su Internet sarebbe un investimento quantomeno azzardato. Stiamo quindi realizzando 4 data center interconnessi, in modo da erogare servizi in cloud alle amministrazioni e quello su cui facciamo leva è, banalmente, il risparmio economico in termini di consumo energetico [dimostrando quanto sia più leggera la bolletta elettrica dell’amministrazione se il datacenter non è in house ndr]”, ha spiegato Giuliano Franceschi, Responsabile Datacenter di Lepida.

Enrico Parisini, Cio di Conserve Italia

Il risparmio economico è una spinta molto forte anche per altre realtà presenti ai due eventi: “Stiamo portando in cloud tutta la parte di communication semplicemente perché si tratta di un’attività standard e utilizzarla a servizio costa meno, oltre ad essere svolta da chi lo fa di mestiere, quindi meglio”, dice Enrico Parisini di Conserve Italia che comunque aggiunge: “In ogni caso, chiunque porti un’attività al di fuori del proprio controllo deve essere in grado di poterla spostare su altri fornitori, altrimenti il rischio è troppo alto, come è successo con l’outsourcing dove la delega era molto alta, con elevati rischi di lock-in. Nel momento in cui il mercato offre soluzioni standardizzate, che possono essere gestite da diversi operatori, allora queste scelte possono essere effettuate con maggiore tranquillità”.

Particolarmente acceso infine il dibattito sulle competenze: “Benissimo competenze di demand management, change management, governance ecc. ma un Cio non può prescindere dalla competenza tecnica di base”, afferma Franceschi. Al quale però Mainetti controbatte: “Certo, l’ideale è avere un background tecnico e passare dalla conoscenza del dettaglio tecnico alla visione strategica, alla capacità di astrarre. Anche questo è un percorso nel quale il Cio deve però accettare di dimenticare l’approfondimento tecnologico per sviluppare le proprie competenze su altro: governare una trasformazione come quella attuale richiede capacità di management e leadership che sono difficili da trovare da chi ha una formazione esclusivamente tecnica. Nel dubbio, a chi mi chiede un consiglio nell’assunzione di un Cio, io dico di privilegiare queste capacità: portare a casa il budget, governare un team, capacità di sedere nel board… le ottime competenze tecniche specifiche poi si trovano”.

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