Trump, in contromano sull’autostrada

Pubblicato il 22 Mar 2017

Figura 1 Ricchezza Mondiale

Tra le tante insicurezze, di ogni tipo, che connotano questi nostri tempi, una certezza almeno emerge forte e chiara: siamo, a livello planetario, nel bel mezzo di una revisione globale dei criteri economici e tecnologici che stanno ridisegnando i tradizionali assetti geopolitici.

Aperture di nuove vie commerciali e aggregazioni di aree geografiche, pur nelle forti spinte nazionalistiche, determinano nuove opportunità di sviluppo economico. Accanto a questo prosegue una “democratizzazione digitale”, cui corrisponde un’inevitabile tendenza di uniformazione, di condivisione e di adeguamento a criteri competitivi globali, che produce forti impatti sociali e profondi cambiamenti culturali. E il tutto sta avvenendo con una rapidità incredibile sotto i nostri occhi, mentre la tecnologia sposta ulteriormente in avanti l’asticella di nuove opportunità di business e scenari di innovazione con software di Intelligenza Artificiale, Internet of Things, robotica intelligente, wearable devices, realtà aumentata e potenza elaborativa (cloud) e di analisi in real time elevatissime a costi abbordabili.

…sacrificando tutto al consenso pubblico e alle promesse della campagna elettorale, non si è accorto di “guidare contromano in autostrada”. C’è tutto un mondo che va in una direzione e lui non vede il passato, il presente e nemmeno il futuro del paese che dovrebbe guidare.

E il nostro Donald che fa? Con la storia dell’”America First”, sacrificando tutto al consenso pubblico e alle promesse della campagna elettorale, non si è accorto di “guidare contromano in autostrada”. C’è tutto un mondo che va in una direzione e lui non vede il passato, il presente e nemmeno il futuro del paese che dovrebbe guidare. Glielo stanno facendo capire i giudici di vari tribunali e numerosi ricorsi in atto nelle diverse Corti di Appello del Paese contro il cosiddetto “muslim ban”, uno dei primi atti della politica anti-immigrazione con cui Trump, dopo i muri anti-messicani che vorrebbe far pagare ai messicani, ha messo al bando, chiudendo l’accesso negli Usa, i cittadini di sette paesi musulmani classificati “indesiderati” (Iraq, Siria – vi ricordate Steve Jobs, figlio di un immigrato siriano? – Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen). Di recente, proprio pochi giorni fa, il divieto è stato aggiornato con un secondo decreto, escludendo dalla lista l’Iraq, ma la sostanza della politica di chiusura non cambia.
Non coglie, Trump, il passato, perché, come è noto e come gli ha subito ricordato Mark Zuckerberg, Ceo e uno dei cinque fondatori di Facebook (con nonni di provenienza da Germania, Austria e Polonia) e una moglie con parenti in Cina e Vietnam, “Siamo una nazione di immigrati e tutti ne beneficiamo quando le migliori e più brillanti persone nel mondo decidono di vivere, lavorare e contribuire qui negli Usa”. Non coglie, Trump, il presente e il futuro, perché forse non vede che i fondamentali di imprenditore che gli hanno consentito di raggiungere il livello di ricchezza, popolarità e successo andranno oggi, e sempre più domani, calibrati su un ruolo centrale che in questi modelli imprenditoriali avrà la tecnologia in genere e quella digitale in particolare. E se chiudi le porte all’intelligenza diffusa, prima o poi ne soffrirai come paese sul piano dell’innovazione.

La ricchezza delle 62 persone più agiate continua ad aumentare mentre la metà più povera della popolazione mondiale è in stagnazione – fonte: Rapporto Oxfam

Di fatto, la Silicon Valley e molte aziende hi tech americane, sia pur in ordine sparso, chi più a parole chi nei fatti, hanno reagito. Le aziende del digitale hanno bisogno di abbattere ogni tipo di barriera. Spesso trovano cultura, preparazione, talenti, fuori dal paese. La collaborazione è l’essenza dell’innovazione e ogni politica di restrizione che possa minare il ricorso a competenze, professionalità, idee e passioni che possono nascere dalla diversità, diventa un clamoroso autogol che queste aziende non si possono permettere. Ecco allora che accanto a proteste spontanee sorte fin da subito nei principali aeroporti del paese (New York, San Francisco, Seattle, Atlanta), dove alcune persone in entrata negli Usa sono state costrette, dal divieto presidenziale, a tornare nei luoghi di partenza non potendo entrare nel paese, Google attraverso il co-fondatore Sergey Brin (non proprio un vero americano del Nebraska, ma un immigrato russo che con la sua famiglia lasciò l’Unione Sovietica all’età di 6 anni) ha dichiarato che 187 persone dell’azienda, con le rispettive famiglie, sarebbero colpite dal bando presidenziale. Tim Cook, Ceo di Apple ha dichiarato che l’azienda è e sarà open, e che le migliori menti che la compongono arrivano da tutto il mondo; Satya Nadella, immigrato indiano nel 1980 e “incidentalmente” oggi Ceo di Microsoft, ha ribadito l’importanza che l’immigrazione ha avuto per Microsoft, per l’America e per il mondo, e che si possono certamente impostare politiche di sicurezza e protezione dei confini Usa senza però sacrificare libertà di espressione e di religione. “Questo provvedimento – ha detto il Ceo – potrebbe avere seri impatti sul business di Microsoft”. E Amazon ha tenuto a dire che “la diversità è la strada per costruire migliori prodotti e servizi per i clienti e che l’azienda è impegnata ad attrarre i migliori talenti provenienti da ogni parte del mondo”. E Twitter, con il Ceo Jack Dorsey ha tagliato corto dicendo che “l’azienda è fortemente contraria al provvedimento presidenziale, che va contro i nostri principi” e che “stiamo dalla parte degli immigrati di tutto il mondo”.

…la collaborazione è l’essenza dell’innovazione e ogni politica di restrizione che possa minare il ricorso a competenze, professionalità, idee e passioni che possono nascere dalla diversità, diventa un clamoroso autogol che queste aziende non si possono permettere

Insomma, una posizione unitaria per una decisione che va contro il business e l’essenza stessa dei percorsi di sviluppo di queste imprese: scegliere competenze e talenti, per ogni livello dell’organizzazione aziendale, laddove si trovano. E per ribadire, al di là del bando sui 6 paesi, che una politica protezionistica porterebbe l’America in una difficile situazione di complessità e di rallentamento rispetto all’esigenza di innovazione e al ruolo di grande motore per il mondo che l’America ha sempre avuto.

Se la società e i business vanno digitalizzandosi, se l’innovazione sia tecnologica sia di modelli imprenditoriali rappresenta la spinta primaria della trasformazione di questi anni, è il concetto stesso di open innovation che non può tollerare un‘impostazione di chiusura e di autarchia. Anche le aziende utenti, non solo le tech companies, hanno bisogno di confronto e scambio, di collaborazione e contaminazione, soprattutto in questi anni complessi. Il filtro indiscriminato, il privilegio (born in USA) o il limite del luogo di nascita è un autogol clamoroso sulla strada del percorso di innovazione che l’America ha spesso guidato, soprattutto nel settore ICT e digitale in genere. E infine, non vogliamo dimenticare, c’è anche l’aspetto umanitario e di evidenza sociale: il Rapporto dell’organizzazione umanitaria Oxfam, presentato allo scorso World Economic Forum di Davos, ha confermato le previsioni di un paio di anni fa, e cioè che l’1% della popolazione mondiale avrebbe detenuto, entro il 2016, una ricchezza maggiore del restante 99%. E così è stato. Di più: se nel 2010, 388 persone possedevano la stessa ricchezza della metà più povera del mondo, oggi le persone sono 62 e nel 2020 si prevede saranno solo 11. Metà della terra, e in questa circa 800 milioni di persone in assoluta povertà, ha la stessa ricchezza di 62 individui che, tra l’altro, negli ultimi 6 anni hanno visto incrementare il proprio patrimonio di 542 miliardi di dollari. E in quale gruppo pensate possa essere il nostro Donald?

Se pochi privilegiati e poche nazioni continueranno a sfruttare il resto del pianeta per avere sempre maggiore ricchezza e benessere, questo squilibrio farà “saltare il banco”: oltre un certo livello di povertà e di sofferenza (e di violenza) non si può resistere e le persone verranno sempre più a trovare conforto, sicurezza e speranza da noi. Che li accoglieremo. Anche se non piace a Mr. Trump.

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