Start up: Ict e web, il futuro è qui. Cerchiamo di non farlo emigrare

Crescono in Italia il numero delle start up in ambito tecnologico (web e Ict soprattutto) e le opportunità di finanziamento, ma sta aumentando anche il numero di quelle che portano all’estero le loro sedi, con il rischio di fuga delle nostre aziende più promettenti. Tutti i dati della survey Mind the Bridge.

Pubblicato il 19 Dic 2012

La maggior parte delle nuove imprese e dei progetti di impresa innovativi, le ormai famose start up, è in ambito web (49%) e Ict (21%), mentre solo un 4,8% si concentra su consumer product e un 3,6% circa su Electronics & machinery. Decisamente minoritarie le imprese nelle clean technologies (1,2%) in ambito biotech/life sciences (0,6%), mentre il rimanente 19% opera in altri ambiti.

Sono queste alcune indicazioni che emergono dalla seconda edizione della Survey “Start ups in Italy: Facts and Trends”, realizzata dalla Fondazione Mind the Bridge [survey realizzata con il supporto scientifico del CrESIT dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese, basata su progetti e imprese che hanno partecipato alla Seed Quest 2012 (166 aziende e 369 imprenditori) – ndr].

“I dati confermano ancora una volta l’esistenza di una relazione inversa tra la numerosità delle imprese in un settore e il livello degli investimenti richiesti per avviare un progetto – commenta Alberto Onetti, Chairman della Fondazione Mind the Bridge – In ambito web o software sono infatti richiesti investimenti minimi in fase di start up, al contrario di quanto avviene per lo sviluppo di tecnologie in campo biomedicale e biotecnologico o di dispositivi ed hardware”.

La maggior parte delle imprese è localizzata nel Nord Italia (52%), il Centro contribuisce per il 21%, e il Sud e le isole per il 15% (in crescita tuttavia rispetto allo scorso anno). Una forte densità si nota attorno ai poli catalizzatori di Roma e Milano.

Anche se si parla di start up, il 59% del campione è in realtà rappresentato da progetti di impresa (“wannabe start up”) che non sono ancora stati strutturati. Le imprese già costituite in forma societaria, che rappresentano invece il 36%, sono molto giovani (in media di 1-2 anni). Il 5% infine è composto da corporate spin-off, ossia nuovi progetti avviati da aziende già esistenti con l’obiettivo di supportare processi di diversificazione e innovazione della propria attività. Le start up vengono spesso formalmente costituite solo dopo che la business idea è stata validata e, in alcuni casi, una volta trovati i capitali necessari alla sua realizzazione.

Figura 1 – Progetti di impresa (wannabe) e spin-off aziendali

Fonte – "Startup in Italy – Facts and Trends", Mind the Bridge Survey 2012

La carta di identità del neoimprenditore

Le start up sono create da giovani, ma non da ragazzini: sono mediamente formate da 2-3 soci tra i 26 e i 35 anni; circa un quarto non è alla sua prima esperienza imprenditoriale. Il 52% circa degli imprenditori ha una laurea di primo livello, il 42% ha conseguito anche un master, il 10% ha un PhD o un MBA. Di questi l’87% ha studiato in Italia, mente il restante 13% all’estero. Circa l’80% degli startupper ha avuto un’esperienza da lavoratore dipendente di circa 8-9 anni. L’8% delle start up in precedenza costituite erano state create all’estero ma solo il 50% ha deciso di rimanere fuori confine. L’8% degli imprenditori seriali, quelli cioè che hanno avviato più di una start up, dichiara di avere concluso le esperienze precedenti a quella in cui sono attualmente coinvolti attraverso una vendita, un’acquisizione o un semplice passaggio di consegne ad altri; l’ampia maggioranza invece (87%) è ancora coinvolta nell’iniziativa precedente che porta avanti in parallelo con il progetto di start up intrapreso successivamente (parallel entrepreneur).

Figura 2 – Principali settori delle nuove imprese

Fonte – "Startup in Italy – Facts and Trends", Mind the Bridge Survey 2012

In fuga verso i “corporate haven” anglosassoni?

Lo sviluppo di nuove imprese Ict e web potrebbe contribuire in modo significativo al rilancio della nostra economia, tanto più che, in quanto aziende per loro natura proiettate sui mercati internazionali, potrebbero svilupparsi senza contare troppo sul mercato interno. Ma sarà davvero questa l’evoluzione? Una percentuale importante delle start up italiane (11%) ha preso casa all’estero, mentre il 14% di quelle non ancora costituite progetta di farlo. Un dato in crescita del 20% rispetto allo scorso anno che fa riflettere sulla necessità di abbandonare il Paese per trovare un ambiente favorevole per nascere e crescere. In attesa di capire se e come le norme introdotte sulle start up all’interno del Dl Sviluppo in fase di conversione in legge riusciranno a favorire lo sviluppo dell’ecosistema, il rischio che le imprese migliori emigrino è concreto. “Questo dato può certo segnalare un possibile rischio di corporate drain, ossia una fuga delle nostre aziende più promettenti– segnala Onetti -. Le start up per loro natura sono scarsamente radicate e quindi tendono a muoversi dove trovano condizioni di contesto più favorevoli alla loro costituzione e al loro sviluppo. Se da un lato sono necessari interventi normativi per rendere il sistema italiano più start up friendly, dall’altro, non bisogna demonizzare la mobilità che, di per sé, non è un fattore negativo da censurare a tutti i costi”.

In realtà alcuni dati sembrerebbero scongiurare un rischio immediato. L’accesso al capitale, l’elemento in cui il gap è maggiore rispetto ad altri paesi, si colloca solo al quinto posto (con il 43%) fra le ragioni che determinano la localizzazione.

Infatti, nonostante la percezione diffusa, il reperimento di fondi non sembra essere il primo problema che si pongono i neo-imprenditori. Il 58% ha contato per l’avvio sull’autofinanziamento o è ricorso a parenti e amici (bootstrapping). L’8% ha ottenuto un grant [premio avuto da start up selezionate all’interno di una data competizione, senza contropartita in termini di partecipazione dell’investitore alle quote azionarie – ndr], il 6% aiuti da banche e fondazioni, un ulteriore 6% è stato finanziato da altre imprese di natura non finanziaria. Il 16% ha reperito investimenti in equity da investitori terzi, in prevalenza angels (8%) e seed funds (7%), solo l’1,2% da venture capital (1,2%). L’investimento medio risulta di circa 65mila euro, valore prossimo al taglio tipico degli investimenti seed. Importo molto vicino a quello che Mind the Bridge investirà nelle migliori start up semifinaliste del Venture Camp.

Per la scelta della localizzazione viene invece al primo posto (69%) la rete di relazioni, seguita (con il 57%) dalla possibilità di accedere a risorse umane altamente specializzate (ingegneri, programmatori, manager,…) e la prossimità ai centri di ricerca (40%). Tuttavia le start up, soprattutto nelle fasi iniziali, sono imprese dotate di una altissima mobilità, almeno a livello potenziale, dal momento che non hanno vincoli operativi, di personale, di impianti ecc..

Disporre di un contesto normativo favorevole alla loro costituzione e crescita (quello che nei paesi anglossassoni è definito “corporate haven”) è strategico se si vuole, se non attrarre insediamenti dall’estero, almeno attenuare la fuoriuscita delle nostre realtà aziendali più promettenti. Tra i paesi che mostrano una maggiore capacità di attrazione delle nostre start up si segnalano infatti Stati Uniti e Regno Unito.

Figura 3 – Come le start – up raccolgono i fondi

Fonte – "Startup in Italy – Facts and Trends", Mind the Bridge Survey 2012

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 5